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Il giorno in cui cambiò il destino dell’Inpgi

di Fabio Morabito, ex-consigliere generale dell’Inpgi

Com’è cominciata la crisi dell’Inpgi? L’Istituto nazionale previdenza giornalisti, la cassa che paga le pensioni (e non solo) della categoria, fino a una dozzina d’anni fa era florida. Un gioiello forse non d’amministrazione ma certo di salute finanziaria. Le entrate (i contributi, e in parte altre voci come affitti, interessi sui mutui e prestiti) superavano le uscite (le prestazioni previdenziali, cui si aggiungono costi degli uffici e degli organi statutari). Il patrimonio mobiliare e immobiliare si arricchiva sempre di più, producendo reddito. Se c’è un patrimonio importante e in crescita, si può affrontare un periodo di difficoltà in modo responsabile e relativamente tranquillo. Ma questo non è possibile se c’è il tracollo tra entrate e uscite, come nella situazione attuale: riduzione dei contributi, crescita delle prestazioni previdenziali.  

Il mondo dell’editoria è stata travolto da una crisi che non si è arrestata, ed è una crisi globale. Anche se poi le proporzioni sono diverse, e un singolo quotidiano tedesco (il popolare Bild Zeitung) vende più copie di tutti i quotidiani italiani messi insieme. In Italia tutto ciò che riguarda l’informazione su carta è drammatico, anche perché i giornali non sono stati mai molto diffusi, con un breve boom nel momento di maggior espansione della free press. Il web non ha sostituito a sufficienza – in termini di occupazione – l’emorragia dei giornalisti dipendenti dalla carta stampata. Ma l’informazione è anche radio, televisione, agenzie, uffici stampa. Settori colpiti in modo diverso (le agenzie sono state penalizzate anche da scelte politiche) ma che sono stati “contaminati” dal crollo della carta stampata.

Un altro problema è la rapida trasformazione del mercato pubblicitario. Le grandi multinazionali del web hanno conquistato via via sempre più spazio, drenando risorse e investimenti. Togliendole a chi produce materiale originale nell’informazione. Ora si ragiona su correttivi. La Francia per prima in Europa ha saputo affrontare il problema. Ma i danni ci sono già stati, con un impoverimento generale. 

In questo quadro si innestano scelte sbagliate, dei rappresentanti dei giornalisti come degli editori, e l’elenco degli errori è certamente lungo. Ma per l’Inpgi il principale errore è stato non saper governare la crisi, programmando in tempo un riassetto non solo della previdenza, ma dell’organizzazione dell’Istituto, degli investimenti. Le manovre si sono succedete una dopo l’altra, scalfendo via via i privilegi che i giornalisti avevano come prestazioni previdenziali. Le pensioni più ricche, irripetibili, che rendono difficile la comunicabilità dei colleghi anziani (e oggettivamente privilegiati) con i giovani dal futuro previdenziale incerto, erano maturate in un quadro di sostenibilità. Fino al 2009.

Cosa è successo dodici anni fa? Ci sono due fatti principali che sono collegati al rinnovo contrattuale Fieg-Fnsi, firmato il 26 marzo del 2009. Il primo è un elemento proprio del contratto: il raffreddamento degli scatti d’anzianità. Questo motore della retribuzione è stato volutamente inceppato. Gli scatti sono 15, prima del 2009 erano biennali. I primi tre sono rimasti biennali e gli altri sono diventati triennali. Prima gli scatti venivano tutti ricalcolati in occasione di una promozione o di un aumento contrattuale. Da allora in poi, aumenti e avanzamenti di carriera sono andati a incidere soltanto sugli scatti ancora da maturare. È difficile rendere l’idea di quale enorme danno economico tutto questo comporti. Di riflesso, un danno anche per l’Inpgi, perché ha visto rallentare irreversibilmente le entrate contributive.

L’altro fatto è stato l’accordo sui prepensionamenti. Questo non è dentro il contratto del 2009, se non in una parte, e cioè il “famigerato” articolo 33 che consentiva il licenziamento dei giornalisti durante uno stato di crisi, qualora avessero determinati requisiti della pensione di anzianità. Gli stati di crisi divennero la normalità. Le redazioni furono svuotate.

L’accordo sui prepensionamenti non era all’interno del contratto, ma fu parte integrante della trattativa. Fnsi e Fieg scrissero un accordo che allargava la possibilità di chiedere lo stato di crisi ex legge 416 anche ai giornali, periodici e agenzie che avevano solo degli indici prospettici negativi. All’Inpgi ancora si dà la colpa al ministro del Lavoro dell’epoca, Maurizio Sacconi, perché è a sua firma il decreto che consentì gli stati di crisi a raffica.

Ma Sacconi non fece altro che trascrivere i termini dell’intesa tra Fieg e Fnsi, come farebbe qualsiasi ministro rispettoso della volontà condivise delle parti sociali. “La sussistenza dello stato di crisi – venne stabilito – non è rilevabile unicamente dai bilanci aziendali, ma anche da riscontrabili indicatori oggettivi, presenti e prospettici esterni”. Basta una calo delle vendite, o una contrazione della pubblicità, e si può chiedere di cacciare i prepensionabili. Sulla base di questi criteri, chiesero lo stato di crisi aziende che da più di dieci anni erano in attivo. Al ministero del Lavoro fu la Fnsi a pregare che fosse aumentato il finanziamento degli stati di crisi fino a venti milioni di euro l’anno. Più soldi, più prepensionamenti, più contributi trasformati in pensioni nell’Inpgi. 

Lo spostamento anticipato, dal lavoro in redazione alla pensione, di circa mille colleghi nei dieci anni, è stato un colpo fatale per l’ente. Gli stati di crisi poi hanno portato un corollario di tagli del costo del lavoro: cassa integrazione e contratti di solidarietà, hanno sostituito qualche volta e accompagnato – più spesso – gli stati di crisi facendo pagare a tutta la redazione, e di riflesso all’Inpgi, i tagli all’organico per prepensionare i colleghi oltre i 58 anni, quelli che avevano mediamente gli stipendi più alti.

I prepensionamenti continuano anche oggi. Ora l’età minima è stata innalzata a 62 anni, e questo significa che per un certo periodo sono stati mandati in pensione colleghi di 58 anni che avrebbero potuto lavorare per nove anni ancora. Un quarto, se non un terzo, della carriera “tagliata” per far risparmiare gli editori e quindi l’Inpgi.

In questo quadro, l’Inpgi è corsa ai ripari innalzando i contributi – che fino a pochi anni fa le aliquote erano molto più favorevoli ai datori di lavoro – fino ad equipararli a quelli dell’Inps. Ormai la contribuzione per l’Inpgi è più pesante di quella dell’Inps. Contemporaneamente sono state fatte una manovra dopo l’altra, che stanno bruciando le migliori condizioni del pensionato Inpgi. Il peso degli ammortizzatori sociali è pesato sulle casse dell’Istituto per mezzo miliardo di euro in questi ultimi anni. 

Nel 2011 per la prima volta le uscite per le pensioni sono state inferiori dalle entrate per i contributi. Quindi gli amministratori dell’Inpgi avrebbero dovuto aprire gli occhi. In quell’anno fu fatta una manovra approvata dal Cda, che venne definita dalla dirigenza Inpgi di allora in grado di “ridurre significativamente quasi fino a scomparire la profonda ‘gobba’ previdenziale prevista tra il 2020 e il 2040. Con gli effetti della manovra il patrimonio dell’Istituto continuerà ad essere crescente e, nei prossimi 50 anni, non saranno intaccate le riserve accantonate”. I bilanci attuariali sono stati fumo negli occhi: chissà quali dati venivano forniti per le proiezioni fatte fino a mezzo secolo di distanza.

Accanto a questa collezione di fallimenti, questa incapacità di leggere il futuro se non in un modo rassicurante, l’Istituto ha prima rivalutato il patrimonio immobiliare, spalmando i nuovi valori su bilanci successivi nel corso degli anni, poi ha studiato la soluzione che sembrava la salvezza. L’allargamento della platea dei contributi ai cosiddetti “comunicatori”. Cioè ai lavoratori che fanno comunicazione ma non in ambito giornalistico. La nuova presidente Marina Macelloni un risultato lo porta a casa: viene approvato un decreto legge nel 2019 dove lo Stato garantisce un indennizzo all’Inps, di circa 150 milioni all’anno per alcuni anni, in “cambio” del passaggio dei comunicatori all’Inpgi. Però la legge chiede all’Inpgi l’impegno, in dodici mesi, di risanare i conti. E la dirigenza dell’Istituto perde tempo, varando una manovra – molto discussa e discutibile – il 24 giugno 2021. Intanto le casse dell’istituto si stanno svuotando. Mentre alcune associazioni di comunicatori fanno muro, e si rifiutano di entrare in un istituto di previdenza che considerano decotto. 

Ormai è troppo tardi. Fa impressione l’incapacità della dirigenza di via Nizza di non cogliere il senso di emergenza della situazione. Sembra esserci un atteggiamento fideistico sull’intervento della politica. Migliaia di giornalisti scrivono al Presidente della Repubblica Mattarella. Il Cda dell’Inpgi si è già appellato al Primo ministro Draghi. Si aspetta, immobili, sembrerebbe con fatalismo. Salvo scandalizzarsi quando Pasquale Tridico, Presidente dell’Inps, dice che il suo istituto è pronto ad assorbire l’Inpgi. Salvando le pensioni, e rassicurando i giornalisti. 

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