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Guerre e rispetto per il lavoro del giornalista

di Amedeo Ricucci

Oggi, 28 anni fa – era il 20 marzo del 1994 – morivano a Mogadiscio Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.


Eravamo partiti assieme dall’aeroporto militare di Pisa una decina di giorni prima e nel nostro gruppo di giornalisti c’era anche Raffaele Ciriello, che morirà poi anche lui a Ramallah il 13 marzo del 2002. Anche per questo di quel viaggio mi resta dentro una tristezza infinita, un senso di vuoto incolmabile, e poi l’idea che il nostro sarà pure un lavoro bellissimo, che dà grandi soddisfazioni, ma è anche un lavoro maledetto, che ti espone a dei rischi che a volte – solo a volte, mi dico, ma ahimè sempre di più – non è detto sia il caso di correre.


Non ne vale la pena – mi viene da pensare – perché il valore e l’esempio della testimonianza sul campo, quella che il giornalista incarna – anche a rischio della sua vita – è ormai un fatto residuale, sempre meno apprezzato, ridotto anzi a un orpello di cui il mercato delle notizie può fare a meno: tanto oggi “uno vale uno” e i leoni da tastiera, brillanti-spigliati-scafati, la fanno da padroni ed hanno facilmente il sopravvento su chi invece consuma la suola delle sue scarpe per andare a cercarsele le notizie, per verificarle con scrupolo e per contestualizzarle e inserirle nella giusta prospettiva.


Mi ricordo che quando da Aleppo, nel 2012, postavo su un sito RAI i video delle “barrel bombs” che mi cadevano sulla testa e con cui il macellaio Assad massacrava il suo popolo c’era una lunga sfilza di commenti che mettevano in dubbio o addirittura sbeffeggiavano il mio lavoro.

Allora non me ne capacitavo, poi ho capito e adesso vedo che è la norma: vedo che c’è un gioco perverso che consiste nel metter in dubbio tutto quello che ti viene raccontato, anche da giornalisti seri ed onesti, e questo solo per sentirsi più intelligenti degli altri o più furbi.
Beh, io non ci sto. Non pretendo di avere la verità in tasca, così come non la pretendevano Ilaria, Miran, Raffaele e i giornalisti morti in Ucraina e in tutte le altre guerre. Ma il rispetto, sì, lo pretendo. Per loro, prima che per me.

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