UN SINDACATO CHE SIA VERA CONTROPARTE

di Alessandro Gaeta – Inviato Tg1

Per fare in Rai del buon giornalismo non basta la buona volontà di pochi. Occorre restituire all’azienda culturale più importante del nostro paese per numero di addetti la libertà di cui merita chiunque produca cultura.

Continuare a pensare che a varare una riforma degna di questo nome possa essere il Parlamento è pura fantasia. La politica non è interessata a modificare lo status-quo perché la Rai e la galassia di piccole e grandi aziende che prospera alla sua ombra resta, così com’è, un facile terreno di conquista. Se un giorno la politica decidesse di fare davvero qualcosa c’è da aspettarsi guai piuttosto che riforme. Tagli piuttosto che investimenti.

E allora l’unico soggetto credibile e legittimato a tutelare la vera essenza del servizio pubblico è -e resta- il sindacato. A maggior ragione il sindacato che raccoglie la dorsale di un’azienda che fa davvero servizio pubblico: quella che a vario titolo -nei radio e telegiornali ma anche nei programmi- produce e diffonde informazione.

Proprio per questo le elezioni dei delegati ai congressi delle Associazioni Regionali e della Federazione Nazionale della Stampa rivestono in questo momento un’importanza cruciale: perché nella Rai della lottizzazione che non è mai morta (anche se la parola è diventata desueta) c’è tanto bisogno di un sindacato che interpreti e tuteli il presente dei luoghi di lavoro e governi il futuro di un’informazione che cambia. Un lavoro complesso che richiede dialogo e condivisione di intenti anche con le altre figure professionali che partecipano alla costruzione del prodotto multimediale. E che sappia anche guardare alle dinamiche che agitano l’intero mondo dell’informazione, di cui la Rai non è una monade.

Tuttavia nell’azienda che fa servizio pubblico radio-televisivo (e che non ha un sito d’informazione concorrenziale) il sindacato -in particolare quello dei giornalisti- sembra quasi attonito di fronte a questo tumultuoso presente, come se avesse perso del tutto la capacità di interpretare e intervenire nella realtà di un lavoro in continuo cambiamento. Il motivo è sotto gli occhi di tutti: non rappresenta più la bassa forza, non interpreta più i bisogni del lavoratore medio, ha perso centralità. E questo perché si sente parte -e non controllore- del processo di produzione.

Solo così si spiega -tanto per fare un esempio- il tentativo di cancellare o di omologare la figura dell’inviato e assieme a questo la visione autonoma della notizia di cui l’inviato si faceva portatore. Solo un sindacato che si sente classe dirigente può cadere nell’errore di continuare a tagliare l’erba sotto i piedi a chi nobilita il lavoro del giornalista con il suo lavoro sul campo, per di più in un’azienda che produce suoni e immagini da luoghi lontani.

Per invertire il senso di marcia che ci ha portato ad una continua confusione di ruolo tra chi si pone a tutela dei lavoratori e chi grazie a questo fa carriera, occorre tornare -a maggior ragione in un’azienda pubblica- a parlare di lavoro, di tutele, di garanzie. Occorre che il sindacato torni ad essere attrattivo per il lavoratore che si sente abbandonato a se stesso. Occorre che il sindacato impari nuovamente a fare e guidare vertenze, senza l’approccio da ufficio-disbrigo-pratiche. Occorre un sindacato che sappia dire di no e che all’occorrenza sappia impugnare l’arma dello sciopero.

Il percorso per tornare al centro del dibattito lì dove si decidono le sorti vicine o lontane del servizio pubblico non sarà né breve né indolore. Dovrebbe passare attraverso l’abbandono di qualsiasi pratica consociativa o dell’idea che il sindacato possa essere parte, anziché controparte. E questo potrebbe essere doloroso per tutti coloro che vedono nel sindacato un mezzo per mettersi in mostra, per rafforzarsi nelle dinamiche redazionali.

Viceversa, potrebbe rappresentare una boccata di ossigeno per chi ancora crede nella necessità di avere tutela sui luoghi di lavoro. Per chi crede che la parola lottizzazione cambia colore ma è sempre attuale. E per chi crede davvero nel libero mestiere di giornalista.

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