Rai: su governance, job posting, giornalismo nelle reti e selezioni si può fare (molto) meglio

di Alessandro Gaeta, consigliere direttivo ASR

Fatto salva la condizione speciale nella quale viviamo in questo direttivo -da quando è stato eletto- si parla troppo poco della Rai. Da un certo punto di vista si potrebbe dire per fortuna perché nell’azienda del Servizio Pubblico Radiotelevisivo non c’è apparentemente alcun conflitto e di conseguenza il dibattito sindacale può anche essere meno vivace. Dall’altro l’apparenza è appunto solo apparenza perché i motivi del contendere ci sono eccome, e di motivi per discutere ce ne sono altrettanti.

La governance innanzitutto. La riforma ai vertici voluta da Renzi con l’introduzione della figura dell’amministratore delegato con pieni poteri ha dimostrato presto i propri limiti costringendo il consiglio d’amministrazione a nominare dopo pochi mesi un direttore generale. Così facendo, generando nuova confusione in un’azienda dove gli assetti si muovono con grande velocità solo quando si manifesta un forte interesse esterno. Viceversa, muovendosi di solito con grande lentezza. Ed è quello che è avvenuto: l’azienda con l’introduzione dell’AD non è diventata più snella. Tutt’altro. Ha raddoppiato ai vertici staff e quindi costi ma non è riuscita a concludere l’iter di un piano di riorganizzazione interna, varato ben prima della pandemia.

Così come la politica non è rimasta fuori dalla porta, tutt’altro. Le nomine avvenute nei telegiornali e nelle reti continuano a rispondere ad un chiaro disegno lottizzatorio. E anche l’introduzione nel CdA di un posto riservato ad un consigliere eletto dai dipendenti non ha portato grandi novità perché è stato considerato una parte delle tante sedute al tavolo e non il rappresentante del tutto, cioè dei 13mila dipendenti che realizzano telegiornali e programmi Rai. Il punto è che avendo esaurito il tempo a disposizione per un intervento legislativo, a meno che non si voglia prorogare -non so come- gli attuali vertici, nel mese di giugno l’assemblea degli azionisti vota il bilancio e chiude l’esperienza dell’attuale Cda e del suo amministratore delegato, ed è quindi a questo punto molto probabile che avremo un nuovo cda con gli stessi limiti del precedente. Limiti dettati soprattutto da una chiara appartenenza dei suoi componenti a precise aree politiche. 

A proposito di nomine e lottizzazione continua la pratica di un sistematico aggiramento di quelle norme di trasparenza -particolarmente necessarie in un’azienda di servizio pubblico- che avevano portato all’istituzione dei job posting per le nomine dei caporedattori e dei corrispondenti dall’estero. Si tratta per chi conosce poco la Rai di un avviso pubblico che si procederà ad una certa selezione in una determinata testata, con l’invito a presentare candidature per una selezione che sarà condotta dal direttore affiancato da un rappresentante dell’ufficio del personale. Il tutto regolato da circolari aziendali che esautorano la funzione del direttore costringendolo di fatto a rinunciare nelle nomine ai poteri dell’articolo 6. A conti fatti siamo di fronte ad una fattispecie molto particolare: una norma promanata dall’editore (cioè la nostra contro-parte), aggira uno degli articoli più importanti del nostro contratto, quello che regola i poteri del direttore, senza abrogarlo ma di fatto facendo cadere nel dimenticatoio il potere principale -che è quello di organizzare una redazione nel rispetto del piano editoriale.

All’inizio questa norma -letta con un approccio positivo- aveva acceso qualche speranza: partendo dal postulato che il direttore di testata è molto spesso espressione diretta o indiretta della politica, una sorta di concorso pubblico (con le regole di trasparenza che devono avere tutti i concorsi in seno alla PA) avrebbe fatto bene alla Rai. L’illusione è durata pochissimo perché le nomine uscite da questo pseudo concorso hanno continuato ad avere un chiaro segno lottizzatorio. Tanto da venir regolarmente anticipate dai siti web e organi di stampa che seguono la Rai. Ogni volta. Nomine note da tempo, una contraddizione in termini per un concorso pubblico e per la trasparenza. Del resto non essendoci norme condivise tra sindacato e azienda lo strumento del job posting è avvolto da una fitta coltre di fumo e dentro le segrete stanze può accadere di tutto.

Al punto che, lo ha fatto accertare il sottoscritto con un’ordinanza del Tar del Lazio nel 2018, le nomine non vengono decise in base a criteri certi e messi per iscritto secondo i quali Tizio è meglio di Caio. Semplicemente perché questi criteri né le linee guida che dovrebbero sovrintendere ad una selezione non esistono. E allora che concorso è? Il tema è molto importante e meriterebbe l’apertura di un vero confronto che però nonostante fatti notori che lo renderebbero necessario, non decolla. L’Usigrai lo auspica ma nonostante i dubbi sollevati dai giudici questo confronto con l’azienda non parte e bisognerebbe interrogarsi sul perché su una questione così importante la trattativa è ferma al palo. Con un problema non secondario: questi job posting assai imperfetti dove non conta il curriculum, l’esperienza e l’anzianità continuano a sfornare nomine discusse.

Altra questione il giornalismo delle reti. Anche qui sono stati fatti dei passi avanti con l’applicazione del contratto a tutti i giornalisti professionisti che a vario titolo già lavoravano per i programmi che hanno spazi informativi. Pagati meglio, con versamenti Inpgi e Casagit in ordine ma non inquadrati sotto alcuna testata. Cioè questi colleghi lavorano senza un direttore responsabile, così come prevede la Legge sulla Stampa del 1948 (una delle prime leggi promulgate dal parlamento repubblicano) e rispondendo come avveniva prima ad autori, curatori e conduttori non necessariamente giornalisti.

Un gran casino di cui non ci si può accontentare e che va al più presto aggiustato perché così non va, non solo perché questa organizzazione viola i fondamentali della nostra professione ma anche perché foriero nella migliore delle ipotesi a quotidiane discussioni mentre nella peggiore espone i colleghi a vere e proprie vertenze. Perché se non c’è una testata non c’è nemmeno un’organizzazione del lavoro propriamente giornalistica: chi assegna i pezzi, chi li valuta, chi ne garantisce la corretta messa in onda. Insomma ci sono in gioco non solo le regole di buon funzionamento di una testata ma anche quello della dignità del singolo giornalista. Il percorso di regolarizzazione del giornalismo delle reti è ancora lungo e non va interrotto ad una prima parziale soluzione.

Di temi ce ne sono tanti. Sul piano strettamente sindacale la nostra forza in Rai è decisamente in ribasso. Arrivano assunzioni e questo è certamente un bene ma sul piano contrattuale non si ha notizia dell’apertura di una discussione dell’accordo integrativo Rai, fermo da anni. Vediamo un’azienda con i conti in ordine e che spende tanti soldi -almeno prima del Covid- ma da anni non vediamo nessun avanzamento né sul piano economico né su quello normativo.  Nel frattempo l’ufficio Risorse Umane decide tutto, bloccando il pagamento dei notturni oppure le trasferte dei giornalisti ritenute pericolose.

Altro punto. L’applicazione dello smart working promana da regole dettate dall’azienda e non sono frutto di un vero confronto. Tutto è lasciato alla giornata e ad oggi primo giorno qui nel Lazio di un nuovo e vero lockdown si va avanti a tentoni, per esperimenti e sperando nel buon senso delle parti in causa.

Buon senso che spesso manca e che ha portato nelle testate a raffiche di provvedimenti disciplinari. Addirittura da noi, al Tg1 c’è un caporedattore che per motivi personali vuole far “saltare” la nomina di una capo servizio, approfittando dei tre mesi di prova, con l’accusa di non avergli comunicato direttamente la necessità di prendere un giorno di permesso straordinario per la malattia del padre (deceduto il giorno seguente).  Una problematica che rientra in quell’organizzazione del lavoro in qualche maniera falsata da quello strumento del job posting così pieno di difetti. 

La mia non è una pretesa esaustiva delle tematiche Rai. Il mio intento era soprattutto quello di riportare la Rai al centro della nostra discussione. La Rai è un’azienda pubblica che sarebbe obbligata de facto a rispettare norme e contratti. Occorre però uno sforzo da parte di tutti noi, occorre la volontà di discutere senza steccati, anche qui a Stampa Romana dove sono iscritti una bella fetta di giornalisti Rai. Eppure dobbiamo constatare che anche la Rai rimane un tema divisivo tra le componenti.  Lo scontro tra il segretario dell’Usigrai Di Trapani e il presidente dell’Ordine Verna, lui stesso ex segretario dell’Usigrai, stanno lì a dimostrarlo.

La questione posta da Verna sull’accesso ai concorsi Rai per tutti i giornalisti professionisti, intendendo quelli che hanno superato l’esame di stato e non solo quelli iscritti all’Albo, non era affatto una questione di lana caprina come poi si è visto in una vicenda analoga al Consiglio di Stato. Questione di punti di vista, anche la giurisprudenza è frutta di punti di vista, per carità. Però lo scontro e l’invettiva NO, non servono a nulla, anzi inaspriscono solo i rapporti e non risolvono i problemi.  È un vero disastro perché dal mio ristretto punto di vista sento tra i colleghi della mia azienda un gran bisogno di sindacato e quindi anche sulla Rai andrebbe fatto uno sforzo unitario tra componenti per rispondere a questa necessità.   

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