IL TAR, REPORT, LA RAI E TUTTI NOI

di Antonio Moscatello – portavoce Informazione@Futuro

La sentenza del TAR contro Report è abnorme, crea un grave vulnus nel rapporto tra la professione giornalistica e il servizio pubblico. Sostanzialmente equipara le azioni messe in atto nell’ambito dell’esercizio della professione giornalistica – sottoposta a una normativa in materia di tutela delle fonti – ad atti della pubblica amministrazione, che soggiace a un altro sistema di leggi e regolamenti. 

Bene hanno fatto la redazione di Report e Sigfrido Ranucci a respingere sdegnatamente l’ipotesi di rivelare le loro fonti, appellandosi al segreto professionale. Ma quella sentenza resta lì come un macigno e una minaccia: da oggi in poi chiunque si senta in qualche modo messo in causa da un’inchiesta giornalistica del servizio pubblico, potrà seguire questa strada per tentare di ostacolare il lavoro giornalistico dei colleghi ovvero di ottenere informazioni utili a carpire le fonti (e magari intimidirle). Un indiretto regalo alle mafie. 

La sentenza del TAR tuttavia, a mio parere, mette in luce un problema che riguarda lo status e la governance della Rai, l’azienda del servizio pubblico. Collocare il servizio pubblico direttamente sotto il controllo istituzionale, anche a livello di governance, rende lo status dell’azienda Rai troppo vicino all’apparato dello stato. Questo fa sì, da un lato, che le pressioni politiche abbiano ancora un’eccessiva ricaduta sull’azienda. Dall’altro, come abbiamo visto in questo caso, rende attaccabile il lavoro giornalistico attraverso un sistema di norme eterogenee di natura anche amministrativa. 

E’ l’ennesima prova che una riforma della governance della Rai e dello stesso concetto di servizio pubblico non è più differibile. 

La Rai deve essere più lontana possibile dall’istituzione politica. Le ipotesi sul terreno sono tante e in decenni di dibattito se ne sono sentite delle più svariate. Alla fine, però, non se ne fa mai nulla, perché avere la più grande azienda culturale del paese a disposizione non dispiace alla politica. Però questa è la strada che porta diritti all’inferno e la politica, prima o poi, dovrà prenderne atto. 

Io sono affezionato a un’idea: una fondazione che assuma la proprietà della Rai e la gestisca in base a uno statuto privatistico. Il Consiglio d’amministrazione della fondazione dovrebbe essere nominato tra personalità alte della cultura e della scienza su proposta del Presidente della Repubblica e con conferma del Parlamento, previ “colloqui” a livello di commissione. I candidati devono rispettare una serie di requisiti che ne garantiscano l’assenza di conflitti d’interesse. 

Il Consiglio d’amministrazione poi potrebbe procedere all’elezione del presidente e alla nomina di un amministratore delegato. 

La Rai resterebbe titolare della funzione di servizio pubblico, esercitata attraverso il contratto di servizio. Ma svincolata dal controllo politico e, in questo senso, anche la funzione della Commissione parlamentare sulla Rai andrebbe ristretta alla valutazione sul rispetto del contratto di servizio stesso, senza che i commissari possano entrare nel dettaglio delle specifiche inchieste giornalistiche, trasmissioni, posizioni. Alla scadenza del contratto di servizio, la commissione dovrebbe valutare se nel complesso la Rai ha rispettato o meno lo stesso e, in caso contrario, proporre correttivi al contratto di servizio stesso o la revoca del CdA. 

Per quanto poi riguarda il concetto di servizio pubblico, a mio parere, andrebbe inquadrato in un contesto più ampio che sancisca a norma di legge una nozione di pubblica utilità dell’informazione. Con Stampa romana nella precedente consiliatura abbiamo messo a punto, grazie anche al contributo attivo dei Cdr, un’idea di norma sulle agenzie di stampa che, rielaborando in chiave italiana lo statuto della francese Afp, ipotizzava che le agenzie rispettassero una serie di criteri di obiettività e libertà da influenze politiche ed esterne per poter accedere a un fondo pubblico per l’informazione primaria.

I principi di base di quella proposta, che andrebbe ripresa, sono validi per tutto il sistema dell’informazione. Sarebbe utile ai cittadini e alla salubrità del contesto dell’informazione ragionare in questi termini: riorganizzare tutto il sistema delle provvigioni, dei contributi, degli aiuti pubblici in maniera che solo chi si attiene ad alcuni parametri (che nella proposta sulle agenzie sono delineati e non sono legati alla linea politica ed editoriale, ma soprattutto alla governance) e rispetta rigorosamente i contratti di lavoro, possa accedervi. Una certificazione, insomma, che regoli l’accesso al sistema di contributi pubblici (ferma restando l’assoluta libertà costituzionale di chiunque di esprimersi anche al di fuori di questo sistema). 

Sarebbe secondo me cosa utile avviare all’interno del sindacato, in un momento di grande cambiamento per il nostro settore, un dibattito sul tema del servizio pubblico, dell’utilità pubblica e della stessa Rai. E l’approssimarsi delle elezioni dell’Ordine dei giornalisti potrebbe essere un’occasione importante per porre questo tema all’attenzione della categoria. 

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