di Michele Mezza
L’intervento di Michele Mezza avvia una riflessione sindacale anche sulla formazione della categoria
L’acquisto da parte del New York Times del sito The Atlhetic per oltre mezzo miliardo di dollari chiude definitivamente la lunga e lamentosa querelle sulla contrapposizione fra giornalismo e informazione digitale.
Dopo almeno tre decenni è andato in scena un rito di voodoo psicanalitico del mondo dell’informazione, in cui i più autorevoli e prestigiosi giornalisti, di fronte ad una transizione che stava mutando i caratteri e la dinamica del modo stesso di informare più che il luogo e la modalità di pubblicazione, hanno reagito come Venerdi, dinanzi a Robinson Crusoe nell’isola del naufragio. Dinanzi allo tsunami che montava implacabile, sgretolando primati e rendite di posizione, con numeri inoppugnabili, che dimostravano come ognuno che moriva era un lettore di carta stampata e ognuno che nasceva non avrebbe mai incontrato un’edicola in vita sua, l’intera categoria dei pretenziosi mediatori di news hanno prima snobbato, negli anni 90, poi, a cavallo del 2000, demonizzato, successivamente hanno giocato la carta disperata della scomunica, attorno al primo decennio del millennio, ed oggi, infine, si sono rassegnati, a trovare posto su qualche scialuppa del Titanic di carta che affonda.
All’origine dell’abbaglio sempre il solito riflesso condizionato che portò Luigi XVI, al tramonto del 14 luglio del 1789, a scrivere nel suo diario: oggi giornata tranquilla, niente da segnalare. La rivoluzione viene sempre esorcizzata dai rivoluzionati.
Eppure i segnali erano consistenti e robusti. Come scriveva Zygmunth Bauman a metà degli anni 90: come potrebbe sopravvivere il sistema dei mass media in un mondo in cui i due motori della cultura di massa, come il lavoro e il consumo, si sono frantumati e individualizzati?
Non ci voleva certo l’ossessione per il materialismo scientifico ad intuire che la marcia trionfale del personal computer avrebbe riclassificato l’intera economia dell’informazione, a partire proprio dal ruolo fra mediatore e mediato.
Già dagli anni 60, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in quella California che incubò il movimento degli studenti che poi animò la stagione del 68 globale, l’intreccio fra il free speech e il free soft indicava come stava prendendo forma non una moda, e nemmeno una cultura ma, antropologicamente, una nuova marca di capitalismo che spostava proprio sull’individuo il baricentro della produzione di ricchezza, innestando quello che poi Manuel Castells avrebbe definito l’informazionalismo, ossia “la produzione di informazione mediante informazione”.
L’occhio di questo uragano, che arrivo in Europa a metà degli anni 80, con l’esplozione dei personal computer della Apple e i software della Microsoft, era proprio l’inversione gerarchica fra consumatore e mediatore di informazione. Si completava così quella mutazione che il genio di Walter Benjamin nel suo celeberrimo saggio L’Opera d’arte nell’Epoca della sua riproducibilità tecnica, a metà degli anni 30, intuì analizzando le prime rubriche di lettere al direttore che cominciavano a pubblicare i grandi quotidiani francesi. Lungo questo percorso, scriveva Benjamin “il lettore si sarebbe seduto accanto al direttore”.
Questa è la rivoluzione che non viene annotata nel diario dei giornalisti, che continuano, fino ancora ad oggi, a misurare le dinamiche del web con le stesse categorie del sistema editoriale tradizionale, basato su credibilità, prestigio, audience, valore di scambio, del ruolo del produttore di informazione.
Mentre, nel nuovo scenario che Baumann definisce di “individualizzazione della singola notizia”, conta invece la scelta di chi ascolta e non l’aura di chi parla. In questo cambio di paradigma si sono infilati i grandi service provider che hanno imposto il dominio dei distributori sull’aristocrazia dei produttori: Google, Facebook, Amazon. Sono loro non i nuovi editori, come, seppur tardivamente, i giornalisti si sono rassegnati a considerarli, ma i nuovi impresari di spazi in cui ognuno di noi trova soddisfazione nella personalizzazione della fruizione dei sistemi dell’informazione.
La mutazione genetica delle testate globali in centro servizi avviene più o meno attorno all’inizio del secondo decennio del 2000, come documenta Mercanti di verità, il saggio di Jill Abramson, l’ex direttore del New York Times, che con il privilegiato punto di vista dell’insider, di documenta i passaggio della mediamorfosi che porta testate come appunto il New York Times, il Washington Post, ma anche il Guardian o Le Monde, ad unificare direzione editoriale, giornalistica e marketing, in una corsa sfrenata alla digital comunity.
Le redazioni non sono più austeri centri di sapere contemporaneo che scelgono e spiegano le notizie, ma semplici centri servizi che accumulano attenzione per distribuire una mole infinita di singole merci altamente personalizzate. E’ il tasso di personalizzazione, e non l’autorevolezza della credibilità, che determina la volontà d’acquisto, la scelta di entrare in quella comunità di abbonati che ogni testata sta cercando ora di aggregare per avere masse critiche su cui costruire un proprio mercato interno della comunicazione.
L’altro elemento che attribuisce valore al servizio editoriale distribuito dalle testate è l’originalità e competitività dei corredi di algoritmi e sistemi intelligenti. Nel momento in cui – questa è la lezione che viene dalle esperienze del mercato editoriale statunitense per come ce lo racconto la Abramson – si attiva una concorrenza diretta con le piattaforme digitali, per i grandi quotidiani diventa essenziale disporre di memorie e intelligenze autonome, in grado di intermediare le relazioni con ogni singolo utente e organizzare senza interferenze l’offerta personalizzata.
Ed infatti vediamo come i bilanci di New York Times o Washington Post destinano almeno il 40% dei profitti proprio allo sviluppo di software proprietari indipendenti dal dominio degli over The Top.
Così come notiamo che sia del tutto decaduta l’ansia degli editori americani a stipulare intese con Facebook o Google, come invece accadeva qualche lustro fa. La lezione del lupo travestito da agnello la si è imparata a proprie spese con le esperienze disastrose di Instant Articles, di Facebook, o dei seducenti ma paralizzanti progetti innovativi finanziati da Google.
In questa logica l’acquisto di Atlhetic da parte del grande quotidiano di New York mostra esplicitamente quale sia oggi la strategia che guida oggi i gruppi editoriali: acquisire una vasta base di abbonamenti non mediante il pregio dell’offerta giornalistica centrale, ma federando infiniti frammenti del mercato informazionalista, dove ognuno di noi ha permanentemente bisogno di sapere una notizia più del suo collega o concorrente per primeggiare. E’ il servizio personalizzato che lega ogni singolo utente al brand editoriale: la singola news letter specializzata, l’offerta di formazione o consulenze specifiche, la fornitura di informazioni territoriali dettagliate, la disponibilità di navigatori per turismo o mobilità professionale.
Il più celebre quotidiano del mondo, con i suoi 1700 giornalisti, più o meno quanti ne dispone il servizio pubblico della RAI, con i suoi inviati in tutti i teatri di informazione del mondo, i suoi autorevolissimi commentatori, i reportage e i premi Pulitzer che ogni anno danno lustro alla testata, vive e prospera per quello shopping center immateriale che propone nel suo sito: 50 news letter, ulteriormente personalizzabili, decine e decine rubriche di cucina o di moda, servizi audiovisivi, app radiofoniche, collegamenti con singoli esperti in tutti gli scacchieri territoriali. E’ da questo mosaico di pulviscolari bisogni soddisfatti che il giornale, lo documenta dettagliatamente la Abramson, ha ricevuto quella spinta per uscire dal tunnel nei primi anni del 2000.
Il suo risiko si allunga ora aggiungendo ai suoi circa 8,5 milioni di abbonamenti il milione e duecentomila degli affiliati al sito di cronache sportive Athletic, profili distribuiti geograficamente ed anagraficamente in maniera ottimale, secondo il marketing del New York Times, che già intravvede sinergie virtuose e progressive.
Lo stesso sta facendo l’austero Le Monde, che ha affidato ad un gruppo di scatenati operatori del web il rilancio della propria testata digitale, moltiplicando offerte e servizi.
In Italia rintracciamo la medesima tendenze nelle acrobazie commerciali sia del gruppo RCS/Cairo che della Gedi, gestione Fiat. In entrambi i casi assistiamo ad un logorarsi delle due portaerei di carta, sia il Corriere della sera che Repubblica, benchè a velocità diverse, stanno regolarmente perdendo copie in edicola, arrivando oggi a vendere un quarto di quanto era denunciato solo sette anni fa, entrambi sotto le duecento mila copie comunque. Mentre risultano in gran spolvero i bilanci digitali, con masse di utenti unici ai rispettivi siti che arrivano ai 30 milioni mese.
Lo stesso, con quantità diverse, si osserva nei gruppi minori, come ad esempio il Messaggero o le testate della galassia appenninica Riffeser.
Questa asimmetria, data da un edicola che piange e un web che ride, non può non portare a strutturali modificazioni sia dell’architettura editoriale che dei profili professionali delle redazioni. Esemplare da questo punto di vista è l’analisi dei curricula dei nuovi assunti nelle testate americane che abbiamo già analizzato rispetto a coloro che vengono pensionati: escono letterati entrano idraulici del web.
Una tendenza che vediamo riprodursi anche nelle nostre redazioni. Ora, proprio seguendo questi profili dei nuovi giornalisti, ci troviamo dinanzi a figure in cui si combinano, senza alcuna chiara distinzioni, funzioni editoriali con attività informatiche, promozionali e pubblicitarie.
Proprio l’idea di distribuire, in maniera altamente profilata, servizi, di cui le news sono semplicemente emblema e pretesto, porta ai nuovi componenti le redazioni digitali ad acquisire la massima autonomia operativa, diventanto multitasking. Abbiamo così dinanzi redattori capaci di raccogliere ed analizzare i big data, sia di eventi che di utenti, editare contenuti in diversi formati, destinare chirurgicamente informazioni e istruzioni nominativamente. Funzioni che inevitabilmente li rende sempre più bersaglio della pretesa dell’editore, ma ancora di più, direttamente delle piattaforme e dei sistemi di software che usano, di produrre attività commerciali esplicite con il linguaggio e la forma del giornalismo. Dalla native advertising arriviamo cosi alla pubblicità narrativa, che sostituisce e non affianca più direttamente i contenuti editoriali.
Chiave di volta di questa tendenza è proprio la relazione con i sistemi intelligenti: quale consapevolezza, visione critica, capacita di gestione, ambizione di riprogrammazione oggi spinge una redazione a rimodellare e autorizzare gli automatismi che stanno, gradualmente, installandosi proprio nell’ultimo miglio del sistema editoriale?
Su questa domanda si giocherà la partita nei prossimi mesi.
La pandemia ci ha già parlato di una spinta autonoma del mondo della scienza ad autorappresentarsi. E ci ha proposto scenari in cui la dipendenza da saperi e competenze diventa sempre più stretta.
A questo punto, combinando le dinamiche strutturali che trasformano la redazione in centro servizi, con le spinte antropologiche, che portano ognuno dei cittadini ad usare spezzoni di saperi e di informazione per la propria sopravvivenza, i media diventano veri e propri laboratori di consapevolezza.
In sostanza si riproduce, in maniera non truffaldina e illegale, il meccanismo di Cambridge Analytica, il sistema che ha interferito sull’arbitrio elettorale in varie occasioni negli Usa e in Inghilterra, sulla base della decifrazione automatica di milioni di identità e personalità degli elettori a cui offrire flussi di informazioni manipolate. Oggi quel meccanismo, che è alla portata di ogni economia di scala, diventa materia in base alla quale negoziare profili di cittadinanza comunicativa in trasparenza.
Ogni redazione, in competizione con le piattaforme, autonomamente dovrà, e potrà costruire questi percorsi individualizzati per i propri utenti. I giornalisti saranno i garanti e i testimoni della trasparenza e della rispondenza del gioco di profilazione con le regole di cittadinanza.
Ma chi certifica la trasparenza delle intelligenze che usano i giornalisti? attorno a questo quesito si ricostruisce una dinamica sindacale e contrattuale che potrebbe dare un esito non subalterno e declinante ad un mestiere che, a differenza da quanto scriveva Baudelaire, se non ci fosse andrebbe comunque reinventato.