L’escalation della follia

di Giampaolo Cadalanu

Articolo pubblicato su IRIAD review

Non c’è un solo piano di battaglia che sopravviva al contatto con il nemico. E’ un luogo comune talmente condiviso che nelle accademie di mezzo mondo non si discute se sia o meno sensato, ma si argomenta sul possibile autore, di volta in volta suggerendo nomi come quelli di Sun Tzu, Carl von Clausewitz, Helmuth von Moltke, Napoleone, Eisenhower, o persino Colin Powell. L’esperienza sul campo non può che confermarlo: le strategie militari si rivelano vincenti solo se messe in pratica da generali dotati di grande flessibilità e rapidità di decisione, dunque hanno valore di orientamento, e in genere non possono valere come progetto dettagliato.

Se non è possibile pianificare il futuro delle guerre in modo affidabile, ha invece senso delineare scenari – mai come in questo caso definibili come “worst case”, cioè i più pessimistici – per concepire un’idea generale di sviluppi improbabili ma non impossibili. In altre parole: possiamo accettare, con una certa prudenza, le proiezioni dell’apocalisse nucleare elaborate sulla base del software sviluppato a Princeton, ma solo per cogliere la scala del disastro, non certo per pianificare contromisure, vie d’uscita o rappresaglie. Le prime osservazioni nel dettaglio chiariscono che i numeri ottenuti dal programma sono assieme terrificanti e molto prudenti. Insomma, l’orrore non si fermerà, è destinato a salire su una scala che non è possibile comprendere fino in fondo.

Di più: il calcolo delle vittime “delle prime ore” non considera il seguito. Ospedali crollati, medici decimati, industrie farmaceutiche ferme, linee di approvvigionamento interrotte… solo le conseguenze immediate sarebbero incalcolabili. Dal crollo delle infrastrutture al fallout radioattivo, con un collasso progressivo ed esponenziale di ogni sistema statuale: il passaggio della soglia nucleare sarà la fine del mondo come lo conosciamo oggi. Non è esagerazione ipotizzare uno stravolgimento complessivo del pianeta, e nemmeno far balenare l’idea di una distruzione così estesa da mettere a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana.

Sono scenari improbabili, è evidente. Ma la via delle armi atomiche è scoscesa e scivolosa: una volta aperta, può avere evoluzioni incontrollabili. E non c’è niente di più grottesco della preoccupazione con cui i generali o i politici più aperti all’opzione nucleare si affrettano a sottolineare che si parla solo di bombe “tattiche”, cioè ordigni di potenza ridotta, i cui effetti sarebbero solo riscontrabili sul teatro dello scontro, con poche conseguenze per i civili. Va da sé che queste sicurezze sono basate sul nulla. Sembra di assistere a una rissa fra ubriachi che dapprima si limitano a usare calci e pugni, poi all’improvviso uno dei contendenti tira fuori un coltello, premurandosi però di far notare che si tratta di un’arma di piccole dimensioni. Non sfuggirà il ridicolo della pretesa di voler “limitare” le reazioni dell’avversario, in base a una presunta ragionevolezza del tutto opinabile.

La verità è che il tabù nucleare, come l’ha felicemente descritto verso la fine degli anni Novanta Nina Tannenwald della Brown University, si sta indebolendo in modo progressivo. Questo succede per diversi fattori, in parte anche per la mancanza di parametri reali, vista la lontananza nel tempo del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. L’Economist aveva osservato che l’ultimo capo di Stato ad avere esperienza dell’attacco Americano da adulta era la regina Elisabetta. E poche settimane dopo quell’articolo anche la sovrana è mancata…

Altro elemento che corrode il tabù è la disinvoltura con cui i “falchi” di ogni schieramento esaminano i possibili utilizzi delle armi nucleari, garantendo in totale malafede quello che nessuno può garantire, cioè la certezza che non ci sarà escalation. Anche a voler accettare per un momento, per necessità di analisi, il punto di vista dei militari più schierati (che per fortuna non sono tutti), si capisce in fretta che gli scenari sono illusori. Le evoluzioni del possibile scontro fra Russia e NATO sono del tutto incontrollabili, e di certo c’è solo la scala – prudente ma già fin troppo spaventosa – della devastazione. Cento milioni di persone colpite, un terzo uccise, solo nelle prime ore di conflitto: è chiaro che un bilancio del genere cambia del tutto gli elementi sul terreno. Per fare un esempio elementare: nessuno può garantire la solidità delle alleanze e delle fedeltà politiche fra i diversi Stati o fra i gruppi sociali davanti ai disastri. La tenuta dei governi, la coerenza strategica, persino la sopravvivenza stessa degli uomini al comando sarebbero in dubbio.

Tanti altri fattori di equilibrio nel mondo sarebbero scossi in modo pesante. Uno scontro nucleare non distruggerebbe solo l’Europa: le scintille incendierebbero con tutta probabilità dal primo momento anche l’Asia (Taiwan è il primo focolaio in attesa di esplosione) e rilancerebbe le prospettive delle potenze nucleari minori, con possibili conflitti (“limitati” solo nelle illusorie pianificazioni dei generali) nel Kashmir, o in Medio Oriente. E farebbe rivalutare le ambizioni di realizzare un arsenale atomico a Paesi come l’Iran, o persino la prospettiva di un uso non sanzionato di armi chimiche o biologiche da parte dei Paesi che ne hanno disponibilità.

Dai tempi dell’Enola Gay, sicuramente qualcosa è cambiato: la coesione monolitica degli Stati non esiste più. Non c’è – per definizione – nelle democrazie, ma non sembra sopravvivere nemmeno nelle autocrazie. L’idea del sacrificio per un ideale, come in passato per il Reich millenario o per la fedeltà all’Impero, oggi non appare proponibile come elemento su cui costruire strategie. E di fronte alla catastrofe nucleare, quali che ne siano le dimensioni, più che una resilienza la prospettiva più plausibile sembra il caos, politico e sociale.

Secondo il modello di Princeton elaborato dall’IRIAD per l’Italia nelle prime ore del conflitto la scala del massacro sarebbe limitata e allo stesso tempo mostruosa: 55 mila morti, oltre 190 mila feriti, città come Napoli e Taranto rase al suolo per la vicinanza con obiettivi militari. E tutto questo solo nelle prime ore dello scontro, senza calcolare nemmeno a breve termine le conseguenze sulle strutture essenziali della società. Stiamo considerando cifre enormi, che non possono essere definito tollerabili neanche davanti all’ipotetico bilancio complessivo di un olocausto nucleare con oltre cento milioni di persone colpite.

Non c’è nulla di tollerabile, mai, in una strage insensata, che si tratti di poche unità o di migliaia di vittime.
Chiarito questo punto, è anche evidente che il dovere delle società civili – e delle persone pensanti tout court – è quello di lavorare per il consolidamento del tabù. Bisogna tornare indietro da quella soglia. Persino dal Giappone – unico Paese ad avere nella carne viva le cicatrici dell’atrocità nucleare – arrivano segnali preoccupanti: Shinzo Abe, ex primo ministro poi assassinato, aveva per primo sottolineato la necessità di riaprire la discussione sulla armi atomiche, ipotizzando persino l’accesso di Tokyo a un possibile programma di “nuclear sharing” come quello NATO.

Per ora l’uscita di Abe non ha avuto conseguenze formali, ma è stato comunque un passo avanti verso l’indebolimento di una barriera che invece deve restare solida. E’ indispensabile ritornare alla conclusione sottoscritta assieme da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, che avevano concordato: “Una guerra nucleare non può essere vinta. E quindi non deve mai essere combattuta”.

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