Gedi: la fine del sogno di Caracciolo

di Giampaolo Cadalanu

Quando c’eravamo noi, allora sì. Allora il giornale era bellissimo, si scrivevano inchieste leggendarie, pubblicavamo scoop entrati nella storia e i lettori facevano a pugni davanti alle edicole per accaparrarsi l’ultima copia, anche ammaccata e senza inserti.

O forse no? Facevamo del nostro meglio, ed era abbastanza. E anche quando avevo una scrivania in redazione il coretto dei reduci-critici mi risultava insopportabile. Oggi la scrivania non c’è più, e il cambiamento nell’azienda dove fino a poco tempo fa lavoravo è veloce e spesso poco comprensibile, ma se ci si lascia andare alla nostalgia è difficile non irritare chi ogni giorno fa i conti con la realtà del lavoro e delle sue esigenze.

Per i giornalisti la nostalgia è pericolosa. Ogni tanto qualche malcapitato giovanissimo mi propone di rivedere i suoi articoli, chiedendomi – incauto – di essere feroce e non sapendo che io lo prenderò in parola. E quando trovo gli accenni nostalgici conditi di banalità gli parlo di “effetto Signora mia”. Qualcosa che, appunto, sarebbe meglio evitare. Proprio così, signora mia, i giornali non sono più quelli di un tempo. Hemingway è morto, Kapuscinski è morto, e anche io ho la schiena che non funziona più…

Però…

Le cessioni dei giornali locali da parte della Gedi sono l’ultima tappa di una mutazione profonda (uso questo termine per scelta). Il cambiamento dell’ex Gruppo Espresso + La Stampa, nelle varie denominazioni societarie degli anni più recenti, è sicuramente davanti agli occhi di tutti. Forse provare a raccontarlo in estrema sintesi può servire a me stesso per capirlo meglio, chissà. A un esame veloce sono state due le direzioni: quella industriale-societaria e quella più direttamente politico-giornalistica. Ma viene da chiedersi: queste due prospettive si possono distinguere sul serio? Poiché di mestiere scrivo, in teoria dovrei evitare di occuparmi dei passaggi di mano dei pacchetti azionari.

Se l’inviato di un altro pianeta arrivasse qui per raccontare la vicenda del giornale in cui lavoravo, cioè La Repubblica, si troverebbe inevitabilmente a rispettare la regola delle W e dunque spiegare “Why?”, “perché?” il giornale fondato da Eugenio Scalfari sia quello che più di tutti ha accusato la crisi generale dell’editoria giornalistica. E gli basterebbe poco, magari la chiacchierata con un pugno di lettori, per capire che il progetto sviluppato attorno a una costola dell’Espresso era nato come un’impresa intellettuale sostanzialmente elitistica ma era poi diventato la voce di riferimento di una fetta significativa del paese, quella laica, progressista, disincantata, attenta ai diritti civili ma anche all’economia, legata all’area politica della sinistra ma molto critica con i suoi rappresentanti.

Insomma, non solo il quotidiano ma l’intero gruppo editoriale avevano costruito un’identità molto forte, ben centrata a Roma ma radicata sul territorio. L’idea di una catena di giornali locali, fortemente sostenuta da Carlo Caracciolo, era quasi una garanzia per chi lavorava nel quotidiano centrale: in un certo senso ci si sentiva con le spalle coperte. Non era solo la comodità di poter fare riferimento, in caso di necessità, a colleghi bravi e ben inseriti. Era la certezza di sapere che in tutto il paese c’era chi lavorava con in testa una certa idea d’Italia.

Qualche osservatore parlava, con toni severi, di “giornale-partito”, come se questo fosse stato un difetto e non un risultato voluto e prezioso. Ricordo molto bene – e fatico a crederci ancora oggi – quando nel 2010 migliaia di cittadini si sono messi in fila, a piazza del Popolo, durante una manifestazione contro la legge-bavaglio proposta dal governo Berlusconi. Volevano arrivare allo stand di Repubblica per stringere la mano a un incredulo Ezio Mauro, e dicevano: “Siete rimasti solo voi”.

Il giornale-partito, il cugino anziano (il settimanale) e i satelliti avevano creato un coinvolgimento forse inatteso, che restò anche quando i referenti politici man mano divennero sempre più esili. Adesso quel coinvolgimento non c’è più. A mio personalissimo avviso, non basta l’idea che quella fetta d’Italia – di cui Repubblica e giornali collegati per un certo periodo sono stati la voce – sia ormai estinta.

Anzi, non solo non basta, ma è proprio sbagliata: quell’Italia è cambiata, ha forse una coscienza nuova e ha sicuramente una cultura dell’informazione del tutto diversa, ma non è sparita. Al contrario: le mancano semmai i punti di riferimento. Si guarda intorno e non trova chi le dia voce adeguata.

A indebolirsi, e nemmeno in modo graduale, è stata l’identità politica e sociale del giornale e dell’intero gruppo. La dismissione dell’Espresso è stata un taglio forte con la storia, la cessione a pacchetti dei giornali locali smonta il radicamento territoriale, e le “correzioni di rotta” politiche di Repubblica sono arrivate a costituire una smentita del percorso avviato nel 1976. Tutto questo ha contribuito a minare quel patrimonio impalpabile che è la base per l’affezione di chi legge.

Ecco, ne sono convinto: le due prospettive di cambiamento del gruppo editoriale sono in realtà due facce della stessa medaglia. Il progetto politico-giornalistico e il piano industriale viaggiavano in parallelo. E ora entrambi sono cambiati, per seguire logiche del tutto legittime – ai conti finanziari, com’è ovvio, non si comanda – ma correndo il rischio di ferire in modo profondo il meccanismo che garantiva il rapporto con chi paga, andando in edicola o leggendo on line, e dunque la solidità stessa della costruzione complessiva.

Perché, alla fine, la nostalgia dei veterani diventa un’espressione patetica. Le valutazioni di noi reduci valgono ben poco. L’unico giudizio che conta, davvero, è quello dei lettori.

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