di Maria Teresa Cinanni
Io sto con Giovanna Botteri. Io sto con un buon cervello contrapposto a un fondoschiena. Io sto con le donne spettinate contro le soubrette patinate. Sono tutti una serie di slogan apparsi negli ultimi giorni sui social e non solo per contrastare chi, molto banalmente, aveva criticato la nota inviata della Rai per il look sciatto delle sue dirette. Ovvio che un giudizio del genere sia deprecabile. Ma proprio perché ovvio non merita, a mio avviso, alcuna risposta, ne’ alcuna partigianeria. Farlo significa attribuire un peso a quelle affermazioni e, in qualche modo, valorizzarle. Forse perché fanno parte di una cultura talmente radicata e stereotipata che si sente il bisogno di enfatizzare il contrario, con il pessimo risultato di protrarre tali luoghi comuni.
Se ho bisogno di ribadire che una giornalista, una professionista non si giudica per il suo aspetto estetico è probabilmente perché anch’io, fosse solo a livello inconscio, attribuisco un valore all’apparenza. E in una società appiattita sempre più sull’immagine sarebbe forse strano il contrario.
Ma il problema va oltre. È il problema di una cultura talmente maschilista e patriarcale che sente l’esigenza di scardinare uno stereotipo creandone altri di uguale peso e di identico linguaggio. Contrapporre alla mancata messa in piega della Botteri lo splendido fondoschiena della Hunziker per dimostrare il trionfo della cultura contro la bellezza fisica significa avvalorare lo stereotipo iniziale. È come se avvertissimo il bisogno di creare sempre un nemico da combattere. Qualcosa da contrapporre retoricamente e visibilmente all’assunto iniziale. Ma le idee, quelle vere, non necessitano del loro contrario per reggersi e camminare. In una società non stereotipata in fazioni, il commento iniziale sarebbe crollato da solo, perché non avrebbe avuto seguito. Enfatizzare il suo contrario gli ha attribuito forza.
Quando, meno di un anno fa, l’ex ministro Salvini chiuse i porti e avviò la sua caccia all’immigrato “sporco e cattivo”, gli si contrappose una retorica analogamente detestabile che inneggiava l’extracomunitario come detentore del bene. Da qui una raffica di immagini, passate anch’esse attraverso i social e i mass media, di africani pronti ad aiutare il prossimo, coinvolti in progetti di solidarietà, generosi con i connazionali. Episodi reali, accaduti nelle nostre città ma che venivano svuotati del loro significato in quanto mere strumentalizzazioni di un’antitesi.
Da qui le schiere di chi inneggiava il fratello povero contro l’opprimente demagogia di destra e di chi, invece, a questo contrapponeva l’immigrato scippatore o stupratore. Poco importava quale fosse la verità, l’importante era ribadire il contrario del proprio nemico ideologico. Perché è questo che è diventata ormai qualsiasi battaglia sociale. Ed è questo che spesso si scontra con la realtà dei fatti e degli eventi. Buon senso avrebbe voluto che nell’immigrato ognuno di noi avesse visto l’uomo, con i suoi pregi, le sue debolezze e le sue fragilità. Come tutti. Buon senso vorrebbe che la professionalità e la serietà di un individuo non avessero sesso, ne’ forma, ma impegno. Ma il buon senso è divenuto spesso utopia, anche perché noi contribuiamo a renderla tale.
La Botteri risponde alle critiche con il proprio lavoro. Non ci sarebbe altro da aggiungere, in un mondo ideale di buon senso. Eppure avvertiamo il bisogno di ricamarci sopra, di prendere posizione, perché alla fine siamo tutti in un grande stadio riuniti da un’unica tifoseria. E forse ci appassioniamo all’ovvio perché è più immediato e apparentemente più facile da combattere. Ed è più semplice creare proseliti e nemici. Ma l’ovvio e’ impregnato di quei canoni che diciamo di voler scardinare. Impregnato di maschilismo e di categorizzazioni, tra uomini e tra donne. Senza alcuna distinzione.
Fa paura un dato pubblicato nei giorni scorsi dal Corriere della Sera in cui emerge che il 71% degli uomini e ben il 63% delle donne italiane pensano che il lavoro sia importante ma ciò che una donna desidera veramente sia una casa e dei figli. Fa paura scoprire che un terzo dei nostri connazionali pensi sia meglio che il marito vada a lavorare e che la moglie rimanga a casa ad accudire la prole. Così come spaventa sapere che il lavoro part time a Roma e nel Lazio (dati Uil/Eures) coinvolge, nel privato, oltre il 50% delle donne e solo il 20% degli uomini. Che bisognerà attendere il 2050 perché le loro retribuzioni e le loro pensioni, a parità di mansione, siano uguali. Preoccupano i costanti moniti dell’Unione europea all’Italia per la poca tutela di donne e minori (e qui bisognerebbe aprire un capitolo a parte).
È questo che mi fa paura e che in un mondo di buon senso dovremmo impegnarci a scardinare. Ma tutto questo ha un peso non simbolico. Tutto questo crea una certa sicurezza, perché è noto, è ciò a cui siamo abituati. Scardinarlo realmente significherebbe sovvertire un sistema. Culturale, sociale, mediatico. E allora è più semplice contrapporre un cervello a un fondoschiena. Perché fin qui ci arriviamo tutti. E il linguaggio è quello di sempre.