Il giornalismo mondiale tra covid e fake news

di Antonio Moscatello

Da due anni a questa parte mi invitano alla Conferenza mondiale dei giornalisti (WJC 2021) organizzata dall’Associazione dei giornalisti coreana (sudcoreana, ovviamente). È stata un’occasione preziosa, perché mi ha consentito di aprire una finestra su quanto accade tra i colleghi di paesi che solitamente non tocchiamo o non incrociamo nella nostra professione. Oltre agli europei, in questa iniziativa, è possibile scambiare opinioni con colleghi provenienti dall’Africa, dalla Russia, dal Nepal, dalla Mongolia. Insomma, permette di aprire una visuale a 360 gradi su un mestiere che nel mondo è declinato in tante maniere diverse quante sono le culture su cui va a operare.

Entrambi gli anni in cui ho presentato anche io una breve relazione sono stati caratterizzati dalla pandemia Covid-19 (e del Covid, giocoforza, ho dovuto parlare in questo consesso). Il WJC 2021, ovviamente, ha concentrato la sua attenzione proprio sul ruolo dell’informazione nella crisi sanitaria. Purtroppo la pandemia ci ha impedito per tutti e due gli anni di tenere in presenza gli incontri e nutro forti speranze di poter finalmente conoscere di persona i colleghi il prossimo anno. 

La cosa veramente impressionante emersa, dal mio punto di vista, è l’incredibile uniformità di tematiche e di giudizi che il Covid ha suscitato alle più svariate latitudini. Al di là delle strategie differenti adottate dai nostri paesi nell’affrontare il coronavirus, gli interventi ascoltati dalla Gran Bretagna al Senegal, dal Messico alla Germania, mostravano un’eccezionale sintonia evidenziando il pericolo della fake news, l’importanza di un giornalismo non in ritardo sugli avanzamenti scientifici, il necessario sostegno allo sforzo vaccinale ma anche il bisogno di mantenere una distanza critica rispetto all’informazione ufficiale. Elementi, preoccupazioni, ricette comuni, in paesi così diversi. 

Questo mi ha fatto riflettere su quanto questa pandemia, per quanto abbia interrotto i viaggi tra i paesi, tuttavia sia stata a suo modo un agente della globalizzazione. Il mondo ha vissuto in maniera quasi simultanea la stessa esperienza e i media hanno dovuto dare risposta alle stesse esigenze informative praticamente a ogni latitudine. Lo hanno fatto, chiaramente, con i margini di libertà di cui hanno potuto godere e con le peculiarità del giornalismo di ogni paese

Sarebbe importante che occasioni di confronto come la WJC si moltiplicassero. E lo sarebbe ancor di più per la nostra informazione, per la quale temo che l’accusa di provincialismo negli ultimi anni non sia immeritata. In una fase in cui il giornalismo di esteri vive una profonda crisi, uno scambio di idee con colleghi di tutto il mondo permetterebbe di assaporare un po’ di aria fresca. Mi chiedo come mai il nostro sindacato non possa farsi promotore di uno scambio di opinioni di questo tipo. Per esempio, l’Italia è presidente del G7 quest’anno: perché non si è pensato di promuovere un G7 del giornalismo? 

Io credo che ci sia un profondo bisogno di rilancio del giornalismo che racconta le cose internazionali non solo riprendendole dai grandi outlet globali delle notizie, ma andando a vedere cosa accade nel mondo, andando a cercare le notizie. Oggi il giornalismo di esteri in Italia è sempre più un “per sentito dire”.

Sono ovviamente consapevole della fragilità economica delle nostre testate. La lezione della pandemia dovrebbe insegnarci però qualcosa anche sul fronte della corretta informazione. Perché, per essere chiari, se avessimo avuto i fari accesi su cosa stava accadendo dall’altra parte del mondo un anno e mezzo fa, probabilmente avremmo potuto prepararci con qualche settimana d’anticipo allo tsunami che stava per investirci, contribuendo a salvare un bel po’ di vite e a subire anche minori danni economici. Io penso che ne sarebbe valsa la pena. 

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