Di Lazzaro Pappagallo, Giunta FNSI
La cronaca di un’agonia annunciata e irrimediabile della professione parte da una parolina magica: i prepensionamenti.
Immaginati come una misura transitoria, in grado di assicurare nelle stagioni più convulse un passaggio morbido verso la pensione a redazioni colpite dalla crisi di vendite e mercato, sono diventati un benchmark del giornalismo professionale italiano.
Non c’è stata testata collegata in qualche modo alla carta stampata che non ne abbia fatto uso. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano sola.Dal rinnovo contrattuale del 2010 i prepensionamenti sono stati un fardello inesorabile.
Hanno avuto il merito di gestire il tracollo della nostra industria affidata in larga misura agli editori della Fieg senza drammi sociali e senza licenziamenti.Il prezzo pagato tuttavia è stato ed è durissimo.
Insistendo sulla riduzione del costo dei dipendenti, giornalisti e poligrafici, con abbondanti iniezioni di danaro pubblico per il rifinanziamento continuo della misura (con l’eccezione del Conte 1), hanno indotto le aziende a non rinnovarsi, a valutare il proprio conto economico sempre dal lato dei costi e mai dal lato dei ricavi.
Hanno indotto nella categoria la convinzione che si potesse approdare al buen retiro con anni professionali e di anzianità alle spalle disallineati alla media dei lavoratori italiani. Hanno innescato un ricambio generazionale totalmente sbilanciato. Il transito tra ingressi e uscite nonostante la sproporzione di costi unitari ben più leggeri dei nuovi arrivi è sempre stato in perdita per i colleghi.
Di fronte a tre uscite, oggi a due, c’è l’obbligo di una sola assunzione. E così solo per restare in grandi redazioni romane oggi lavorano a via del Tritone più che sulla Colombo metà o un terzo dell’organico di quindici anni fa.
IL PASSAGGIO ALL’INPS
In qualche stagione di lotta sindacale è rimbalzato lo slogan: “Noi la crisi non la paghiamo”.In questo caso i giornalisti, intesi come un unicum, hanno pagato la crisi.
L’Inpgi è affondato per il mancato passaggio al contributivo, avvantaggiando la generazione andata in pensione tra 2010 e 2020, e per la massa imponente di stati di crisi.Il passaggio all’Inps tra i diversi vantaggi, a iniziare dalla garanzia pubblica delle pensioni maturate con il retributivo, avrebbe dovuto allineare la nostra età pensionabile a quella degli altri lavoratori.
E’ invece curioso notare che se il dibattito pubblico si alimenta intorno alle quote 100 (o 102 o 103 o 104) per anticipare la pensione, a seconda delle spinte politiche del momento, i giornalisti tuttora possono andare in pensione con quota 88 o giù di lì.
Un piccolo (forse) cadeau individuale, certamente un grande favore per gli editori.Ed è ancora più strano che quel dibattito pubblico così arroventato per i privilegi e per le caste sia ancora silente su questo disallineamento della nostra categoria. Ed oggi manca la foglia di fico della cassa previdenziale di categoria. I panni sporchi non si lavano più in casa.
COME SI STRAVOLGE IL FONDO STRAORDINARIO PER L’EDITORIA
La posizione in campo di Stampa Romana (non della Fnsi) è stata netta.
Questa stagione va chiusa al più presto.Non possiamo giocare con il pallottoliere degli stati di crisi il cui saldo per i giornalisti è sempre negativo.Non si può farlo intanto per ragioni industriali se vogliamo aziende sane (e lavoratori apprezzati e motivati) che competono per trovare risorse dal mercato e non per subirlo o addirittura per ignorarlo.
Anche in questo caso il tempo ci darà ragione. Ma non possiamo non lanciare altri segnali di allarme.
Qualche anno fa gli ultimi governi pre Meloni avevano lanciato l’idea, da noi sostenuta, di un fondo straordinario per l’editoria.Il ruolo della direzione pubblica del settore per noi non è arbitrario.
Non siamo mai stati fan ciechi del mercato e delle sue logiche e riconosciamo allo Stato un ruolo di equilibratore a partire da stimoli ad una occupazione stabile e di qualità.Il fondo era composto di quattro voci. Una di queste riguardava gli incentivi alle assunzioni sotto forma di decontribuzione.
Sul piatto c’erano e ci sono una decina di milioni l’anno.Abbiamo notato con la Federazione Nazionale della Stampa che quei soldi sono stati in buona misura inutilizzati. A utilizzarli e spenderli sono state piccole e piccolissime testate con la lodevole eccezione dell’Agi. Come se, quando si tratta di stabilizzare i giornalisti, gli editori non fossero interessati alla partita, nonostante il sostegno dello Stato.Quel fondo continua a essere vivo.
Ma gli editori hanno messo nel mirino i soldi inoptati e vogliono farli transitare nei prepensionamenti già alimentati dal 5% annuo dei 160 milioni del fondo ordinario dell’editoria.
In questo modo gli editori otterrebbero il risultato di raddoppiare le spettanze per i prepensionamenti e accompagnare un’altra generazione di giornalisti con le proprie competenze e la propria saggezza professionale verso le spiagge di mezzo mondo.
Quindi un fondo che doveva creare occupazione regolare, stabilizzando quello che c’era, diventerebbe in larga misura un fondo che distrugge occupazione.
E’ necessario che il dipartimento all’editoria non ceda a queste forzature.
Non vorremmo che anche questa partita, come alcune fughe in avanti sulla intelligenza artificiale (vedi il Corriere della Sera) con richiesta di benedizione del Dipartimento, sia merce di scambio per il nuovo contratto.
Un conto è rinnovare il contratto per 20mila giornalisti, un altro per 16mila, un altro ancora per 13mila.
Inutile ricordare chi sarebbero le vittime.