La lezione ucraina: Ripartire da dove arriva l’informazione e non da dove parte

Di Michele Mezza

Intanto ringrazio Lazzaro per il tempo che dedica al mio libro, come al solito misurandoci con il merito dei problemi trattati. Per stare sullo stesso metro , senza voler difendere il testo che è al giudizio di chi avrà tempo per leggerlo, mi pare utile per la categoria e il nostro sindacato toccare due nervi scoperti del mestiere che centra Lazzaro.

Il primo riguarda la questione della Cyber security.

Noi ci abbiamo messo 20 anni per capire che i sistemi editoriali erano stati attraversati e travolti da una rivoluzione sociale – i lettori si siedono accanto al direttore del giornale, come scriveva Benjamin , gia nel 1937- e una tecnologica- si automatizza prima la scrittura e poi il pensiero con l’intelligenza artificiale. La seconda, conseguenza e non causa della prima.

Su questo ancora siamo incerti . Ed è invece questa considerazione, sono gli utenti che pretendono nuove forme di accesso diretto alla produzione e non solo al consumo di informazione e non le piattaforme che le impongono, che da’ senso a quanto sta accadendo. Comunque dicevo dopo 20 anni che cerchiamo di capire cosa significa la digitalizzazione delle news, scopriamo che la storia è andata avanti e si è digitalizzato sia lo stato che, vediamo tragicamente, la guerra.

Cambridge Analytica non era folclore o uno scenario distopico, era cronaca: si fa politica, si fa comunicazione, si fa marketing, interferendo nella psicologia di ogni singolo utente, sia esso elettore, cliente o lettore. In questo scenario la comunicazione diventa cassetta degli attrezzi della guerra Ibrida, e dunque l’informazione è immediatamente intrecciata e combinata con la cybersecurity. Ora non è uno scenario che auspico ne’ che mi piace, ma è una dinamica che dobbiamo riconoscere, magari mettendoci meno dei 20 anni usati per intuire la svolta digitale, e ricostruire la’ dentro le nuove funzioni e ruoli del giornalismo. Sapendo che lo stato ha assunto la sicurezza come categoria attraverso la quale riorganizza le forme della comunicazione.

Il mio libro è dedicato ad Assange ma anche alla Politoskaja, due straordinarie figure di giornalisti rimasti, in modo diverso per fortuna, vittime di stati che hanno voluto omologare l’informazione alla propria ragione di potere.
Questa dinamica si ripeterà e gli stati si mescoleranno ai giornalisti per separare i fatti dalle fonti. Non a caso cito i report dell’agenzia Melani, l’Agcom, svizzera, che a differenza della nostra ha una straordinaria lucidità, e che come missione ha proprio quella di monitorare e controllare la sicurezza dell’informazione intesa come convergenza di informatica, giornalismo e security.

La guerra in Ucraina ha aperto il vaso di pandora e dobbiamo comprendere come destreggiarsi in uno scenario in cui gli apparati dello stato, come già da tempo fanno le grandi compagnie private, voglio controllare e finalizzare l’informazione alla propria strategia. Non possiamo solo declamare la nostra estraneità, noi siamo ormai strutturalmente figure embedded nella guerra ibrida.


Il punto è come rimanere autonomi e salvaguardare la capacità di usare la trasparenza esattamente come recita la famosa sentenza della Corte suprema statunitense nella causa sui Vietnam papers, intentata dal governo contro il New York Times e il Washington Post, che fissa il principio per cui la libertà di stampa deve tutelare i governati e non i governanti.


Qui affiora il secondo nodo che dovremmo furiosamente discutere: le nuove figure professionali e i profili di competenza dei giornalisti della guerra ibrida. E’ evidente che se ci troviamo dinanzi a fonti sofisticamente alterate e falsificate e dobbiamo valutarle in velocità, dobbiamo avere , in proprio e non attraverso consulenti o tecnici, saperi e capacità che ci permettano di svolgere con piena consapevolezza questo lavoro. Innanzitutto riprogrammando i sistemi intelligenti, senza concedere agli algoritmi dei fornitori l’intoccabilità e il consenso per farci formattare le nostre azioni. Dunque dobbiamo avere redazioni riclassificate alla luce di questi saperi, dove possano avere piena cittadinanza forme di artigianato informatico e di abilità di scrittura, e poter cosi condizionare i processi di machine leaerning di algoritmi che ormai tendono a sostituirsi e non più solo supportare il giornalista.


La formazione dunque non può essere solo addestramento professionale nell’usare quello che c’è ma deve essere piena visione critica dei processi tecnologici e capacità di leggere i processi sociali, i comportamenti degli utenti, che abbiamo detto sono la vera matrice dell’innovazione digitale. Insisto nel libro su un passaggio che ritengo fondamentale per i colleghi e anche per il sindacato. Umberto Eco, già negli anni 80 ci invitava a qualificare l’informazione in base a dove arriva e non da dove parte.

Cioè in base alla relazione con gli utenti, ai linguaggi e alla mediazione tecnologica che incontra e non solo dalle redazione e testate. Il giornalismo e il suo sindacato oggi deve diventare un grande tutor di moltitudini di utenti che diventano co produttori della notizia, avendo imposto e conquistato procedure ed esperienze per riprogrammare socialmente gli algoritmi. Ritrovando così la missione di cane da guardia del potere di oggi e non di un sarcofago vuoto.

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