Gaza, Hamas e Israele: i fatti e le narrazioni. Intervista a Riccardo Noury

di Antonio Fico

Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia non si può dire che manchi di franchezza quando parla del racconto, della “narrazione” che ci stanno restituendo complessivamente i media sul conflitto in Medio Oriente cominciato il 7 ottobre, con il terribile atto di terrorismo perpetrato da Hamas ai danni di militari e civili israeliani (e non solo) e della devastante risposta di Israele a Gaza, che ha mietuto a oggi oltre 14 mila vittime e un numero impressionante di feriti. In stragrande maggioranza civili.

Per non tacere dei bombardamenti indiscriminati, dell’assedio degli ospedali, di un milione e 700 mila persone costrette a lasciare le proprie case, per luoghi tutt’altro che sicuri. Amnesty International Italia ha deciso – assieme ad Assopace Palestina,  Fnsi, Odg, Usigrai Articolo 21, Rete NoBavaglio, Un Ponte per, Free Assange Italia, Gv Press e Lettera 22 – di sostenere una petizione di giornalisti italiani e internazionali che chiedono l’accesso a Gaza “per coprire una guerra di vitale importanza per i nostri Paesi e il nostro futuro”, spiegano i firmatari. “Questa – continuano – non è solo una richiesta per giornalisti, ma un appello a difendere i principi fondamentali su cui si fonda ogni società libera e democratica”.

La guerra ha preso di mira anche i giornalisti: 60 morti. Un numero mai registrato prima in nessuno dei conflitti recenti. Per Noury, però, la partita non si gioca solo a Gaza, ma anche in Italia, e interroga lo stesso futuro dell’informazione. L’informazione prevalente sulla guerra è equilibrata? Per il portavoce di Amnesty, “non lo è stata fin dall’inizio”. 

Perché a tuo avviso, non è un racconto equilibrato? 

Il 7 ottobre è successo oggettivamente un fatto senza precedenti, cioè un’incursione da parte di gruppi armati palestinesi nel territorio di Israele, con un numero di morti che è il più alto tra quelli registrati dalla comunità ebraica dalla Seconda guerra mondiale. Questo ha dato luogo a una narrazione solidale, direi doverosamente solidale nei confronti di Israele. Che però non è stata accompagnata da una narrazione altrettanto solidale nei confronti della popolazione civile di Gaza. 

Fin dall’inizio della sua campagna a Gaza, Israele si è macchiata a nostro avviso – e abbiamo documentato in varie inchieste questa accusa –  di atti equiparabili a crimini di guerra, ma quello che è mancato in queste settimane è stato un sguardo obiettivo sui fatti. Ci si è concentrati sugli attori piuttosto che sui fatti, e quando si decide di stare da una parte o dall’altra, si fa una narrazione soggettiva che vuole solidarietà a secondo di chi è attaccato. 

Come ti spieghi questa posizione pregiudiziale? 

Questo è un fenomeno abbastanza comune in tutta Europa, soprattutto in Italia e in Germania, dove c’è un senso di colpa storico per via dell’Olocausto. Questo senso di colpa, che ha le sue ragioni, non dovrebbe però essere accompagnato da una totale mancanza di empatia nei confronti degli altri, quasi azzerando la la distanza tra i gruppi armati palestinesi e la popolazione civile, che viene automaticamente etichettata, deumanizzata. Questo dà luogo a un doppio standard in cui gli uni hanno diritto a una solidarietà acritica, gli altri al massimo sono meritevoli di aiuti umanitari, ma mai di diritti. Col sotto testo che 2,3 milioni di persone sono colluse con i gruppi armati. 

Circa 750 giornalisti appartenenti testate statunitensi di primo piano e ad altre testate internazionali hanno sottoscritto una lettera aperta in cui si critica il sistema informativo occidentale, accusato “di una retorica disumanizzante che serve per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi”. Aggiungendo che andrebbero usate parole come “pulizia etnica” e “apartheid” per descrivere la situazione in cui oggi versano la comunità palestinese. Colpisce questa forma di insofferenza senza filtri. 

Non c’è dubbio. Teniamo anche conto che per la prima volta, se si eccettuano pochi giornalisti embedded con le truppe israeliane, non ci sono giornalisti internazionali nella Striscia di Gaza a differenza di altri conflitti precedenti tra Israele e Hamas come Piombo Fuso e Margine protettivo. I networkinternazionali hanno preferito lasciare lì i soli collaboratori arabi, che pagano con la vita il loro lavoro sul campo. 

Questa è anche una guerra ai giornalisti. Ci sono 60 operatori dell’informazione, a cui si aggiungono i feriti e quelli in carcere. 

Questa situazione pone due problemi: il fatto che i giornalisti siano diventati un target e la mancanza di una copertura indipendente. C’è un disperato bisogno di avere la stampa internazionale e i grandi network all’interno della Striscia. Sono convinto che se accanto a un giornalista arabo di Al Jazeera ci fosse anche un giornalista americano della Cnn, ciò fungerebbe da deterrenza. A quel punto, dal punto di vista della reputazione internazionale, colpire un giornalista sarebbe un prezzo troppo alto anche per Israele. 

In queste settimane si sono susseguite in tutto il mondo manifestazioni per un cessate il fuoco a Gaza, e voi stessi alla fine di ottobre siete scesi in piazza. Anche qui, il racconto di queste manifestazioni, come è stato? 

Le manifestazioni di appoggio, di solidarietà con la popolazione civile, di indignazione dovrebbero essere sempre e comunque consentite, mentre abbiamo visto in alcuni paesi europei, come Inghilterra e Germania, il tentativo di scoraggiarle o di vietarle. Senza grandi risultati tra l’altro, come dimostra la manifestazione oceanica di Londra. Al di là di questo o quel cartello che può incitare all’odio e che va condannato, si è trattato di manifestazioni per lo più pacifiche. 

Anche per questo fa impressione il modo in cui molti mezzi di informazione hanno raccontato questi eventi. Il 27 ottobre Amnesty international con ad altre associazioni del terzo settore e alla Rete per il disarmo, è scesa in piazza a Roma e in altre dieci città italiane per chiedere il cessate il fuoco. Lo schema è il solito: la cronaca politica – chi sarà presente, chi non sarà presente e perché sì e perchè no –  è diventata più importante di migliaia di persone che manifestavano per fermare il massacro – e l’onnipresente narrazione delle piazze vuote, del flop, della manifestazione fallita che francamente minimizzavano quanto accaduto, ben oltre la realtà. 

Siamo tutti preoccupati dal risorgere di episodi di antisemitismo. Non c’è il rischio, però, che questa preoccupazione si confonda con la legittima posizione di chi critica il governo di Israele per le sue politiche e le sue azioni? 

No, dell’antisemitismo va tenuto conto, e ne bisognerà tenere conto in futuro, perché è un fenomeno che riprende piede proprio in momenti come questi. Fa impressione che questo rigurgito di antisemitismo, tra l’altro, arrivi dopo il peggior massacro di cittadini di religione ebraica dopo la Seconda guerra mondiale. E questo è inaccettabile. Dopodiché, sappiamo bene che l’antisemitismo, nei momenti di tensione, non è mai solo. C’è sempre un rigurgito di islamofobia.

In questo caso non direi islamofobia, direi proprio palestinofobia, addirittura gazafobia perché ce l’hanno proprio con il togliere l’umanità 2.200.000 persone. E questo insomma lo vedi ogni volta che qualcuno prova a distinguere tra Hamas e 2.200.000 persone. Ogni volta che provo aparlare il linguaggio del diritto internazionale, è come se la popolazione di casa non meritasse questo rispetto, e questo è altrettanto inaccettabile. Sono entrambi fenomeni da condannare senza se e senza ma, ma abbiamo il dovere di parlare di tutto, anche se scomodo e disturbante per le orecchie occidentali.

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