Contratto e prepensionamenti: i perni della mobilitazione. Le redazioni e gli stipendi tagliati per il salva Inpgi

di Lazzaro Pappagallo, Giunta esecutiva Fnsi e Direttivo Stampa Romana

Cambiano le stagioni con qualche oscillazione sul meteo atmosferico ma il nostro settore procede con il pilota automatico.


Nessun segnale dagli editori su organici e organizzazione del lavoro, o meglio una continua, indefessa ricerca di sovvenzioni pubbliche soprattutto con la formula dei prepensionamenti legati agli stati di crisi.
Su questo “surplace” dovremmo incidere con i nostri interessi.
E gli interessi della categoria, nel lavoro organizzato e subordinato, sono due: un rinnovo contrattuale atteso da anni e un minimo di recinzione del perimetro occupazionale.


IL NUOVO CONTRATTO

Nelle recenti esplorazioni attorno ai contratti scaduti i tecnici del Cnel avranno iscritto anche il principale contratto firmato dalla FIEG e dalla FNSI tra i contratti “desaparecidos”.
L’ultimo ritocco triennale è datato 2014. Da ormai otto anni siamo senza copertura contrattuale.
In quel rinnovo come nei precedenti non sono stati previsti meccanismi compensativi dello stallo negoziale (anzi introducendo l’elemento distinto della retribuzione come una specie di freno a mano sugli aumenti contrattuali abbiamo depotenziato la rincorsa salariale).

Chi negoziava era convinto che la politica salariale post ciampiana, fatta di moderazione salariale, contenimento dell’inflazione e aumenti di produttività premiati da aumenti di stipendio, potesse tenere sine die.

L’inflazione a due cifre degli ultimi anni ha rotto questa illusione. Non siamo lontani dal vero se immaginiamo che gli stipendi dal 2016 hanno perso il 20% del loro potere d’acquisto.Molti contratti di altre categorie non hanno dimenticato l’indicizzazione dei salari e sono oggi contratti premiali. Sono in campo diverse formule che consentono di far traslocare anche sugli stipendi l’aumento dell’inflazione ma non appartengono al nostro mondo.

E’ ora dunque di riaprire il tavolo negoziale, mobilitando le redazioni, a partire dalle più grandi, partendo dal recupero dei salari reali.
Gli aumenti vanno legati anche ad un ragionamento terra terra sulla produttività esplosa per l’interazione continua di articoli, video, audio e notizie con il web e i social. Una produzione intensiva che merita un concreto riconoscimento salariale e un ragionamento sull’orario di lavoro.

E’ evidente a tutti che senza un intervento sull’orario di lavoro si moltiplicheranno gli esempi di burn out redazionale o di mancato turn over. Conosciamo casi, apparentemente incredibili, di giovani colleghi appena assunti che si dimettono per l’insostenibilità fisica e psichica della catena produttiva.

Oltre alla liberazione delle energie intellettuali della nostra professione, un orario rivisto e adeguato con una diversa modulazione settimanale (pensiamo a 4 giorni su 7) sarebbe un segnale da lanciare ai colleghi senza lavoro, non necessariamente giovani di primo pelo, creando le condizioni per redistribuire con nuove assunzioni il monte orario redazionale. Questi perimetri meritano un ulteriore passaggio.

I PREPENSIONAMENTI

Mentre si parla con insistenza e con timore di intelligenza artificiale (anche questo arrivo, soprattutto questo arrivo dovrebbe essere definito nel nuovo contratto per non lasciare questo passaggio così delicato nelle mani degli editori) sempre per ridurre il lavoro dipendente, noi abbiamo visto e vediamo la stessa identica filosofia, ovvero la riduzione del lavoro giornalistico, applicata alle dinamiche che da quindici anni governano la professione.


I prepensionamenti sono stati il modello produttivo delle aziende editoriali italiane.
Con le crisi prima prospettiche e poi reali, i giornalisti dipendenti scavano al di sotto del tetto dei 14mila dipendenti dopo aver toccato anni fa quota 20mila. 
E’ un meccanismo infernale.
Non motiva mai gli editori a fare impresa lavorando sui ricavi ma li adagia sul taglio dei costi, a iniziare da quello del lavoro. 

E’ infernale anche perchè la progressione matematica è inarrestabile.

Il cambio attuale è di 1 ingresso ogni 2 uscite (è stato anche di 1 a 3) e il neo assunto non necessariamente deve essere un giornalista. In pratica gli editori ottengono un cambio di 1 a 5 rispetto al reale costo del lavoro di chi esce, un costo del lavoro molto pieno. E non è detto che il nuovo arrivo sia un giornalista con tesserino ordinistico.
Le domande per il nostro sindacato sono due: vogliamo smantellare questo meccanismo, peraltro unico tra le professioni in area Inps? Se lo consideriamo invece un meccanismo necessario per regolare un ricambio in vista di una transizione digitale possiamo chiedere alla politica di rivedere la norma e prevedere un cambio alla pari? Gli editori avrebbero sempre il vantaggio di avere una busta paga entrante molto più leggera di quella uscente.

E noi avremmo il vantaggio fondamentale di non avere un settore (carta stampata, i periodici, il web per ora) sempre più ridotto a una riserva indiana caratterizzata da questa incredibile equazione: più produttività personale e di squadra, più prodotto, in cambio di stipendi reali più leggeri e perimetro occupazionale schiacciato.
Se allora la mobilitazione unitaria, confermata dalla consulta nazionale dei comitati di redazione, ha un senso (e lo ha solo coinvolgendo le redazioni), si deve aprire un confronto schietto e chiaro con gli editori e stimolare una forma di pressione sistemica con il Governo e il Parlamento, dai quali dipende la legge sui prepensionamenti. Per farlo Fnsi deve archiviare la recente stagione del “parlo con il mio specchio” oppure della “lettura politica del momento”.

Operazioni affidate a rabdomanti interni alla categoria che ha prodotto risultati zero. Ma deve avere il coraggio di guardare dentro le residue dinamiche territoriali e di governo della Fnsi (Giunta e Consiglio Nazionale) per saldarsi con una operazione di concreta e misurabile azione di lobbying nei confronti dei parlamentari.
Non ci rassegniamo a un presente e un futuro in cui il lavoro giornalistico non sia pagato il giusto per garantirne indipendenza e autonomia (e tutelare così la democrazia) e in cui una delle principali leggi di settore distrugga e non crei occupazione.

IL SALVA INPGI

In questi e nei prossimi giorni colleghe e colleghi stanno assaporando gli effetti disastrosi del Salva Inpgi con il prelievo dell’1 per cento su sei mensilità (oggi raggruppate) nell’estremo tentativo di salvare Inpgi 1.

Un tentativo bocciato dal governo Draghi. Un tentativo non solo scritto sulla sabbia ma che incredibilmente non fu revocato dai vertici dell’Istituto, tuttora in carica, anche dopo che lo Stato era intervenuto per incorporare Inpgi 1 in Inps. Le aziende caricheranno il prelievo sulla tredicesima per attutire il colpo ma ci chiediamo come sia stato possibile infilare un autogol del genere nella propria porta sull’esempio di Comunardo Niccolai. 

Definitive sul tema le parole del comitato di redazione del Corriere della Sera. Chiudiamo con una loro citazione non senza aver ricordato che Stampa Romana è l’unico segmento di categoria ad aver presentato un ricorso contro questo “sconcio” al tribunale delle Imprese, chiedendo un intervento non semplice e non immediato.

Scrive il cdr del Corriere della Sera:
“Una decisione (quella del prelievo, nda) fortemente contestata dall’opposizione nel Cda Inpgi e oggetto di forti polemiche nella nostra categoria. Queste misure (previste originariamente dalla delibera per 5 anni ma “ridotte” in concreto a 6 mesi per avvenuto passaggio all’Inps) miravano a un disperato (e dannoso) tentativo di salvataggio dell’Inpgi, cosa che come ben sappiamo non si è realizzata e l’Inpgi 1 è confluito per legge nell’Inps 16 mesi fa. La loro inutilità oggi risulta evidente a tutti”.

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