La Repubblica: nove anni di successi, fu sempre vera gloria?

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Cambiano le stagioni, cambiano i cicli manageriali.

Il passo indietro di Monica Mondardini o, meglio, la nuova avventura più defilata in Cir che la attende era nell’ordine delle cose. La manager di formazione industriale e finanziaria, cavaliere della Legion d’Onore, ha scritto una pagina non banale nella storia del gruppo Gedi.

È stata la cinghia di trasmissione della famiglia De Benedetti nella fase in cui il re Scalfari esercitava solo il ruolo da padre nobile, consegnando definitivamente agli archivi la stagione di Caracciolo, dei Bocca, dei Mafai, dei Rocca, di tutti coloro che al giornale Repubblica e all’Espresso avevano dato un’anima.
E che anima!

L’intuizione di Scalfari era diventata il punto di riferimento della sinistra. Una sinistra di proposta, che accettava la sfida del Governo, centrale nella storia della Seconda Repubblica.

Un’anima policentrica con la rete dei quotidiani Finegil dal quale con orgoglio era lecito pensare che la frase del Re Sole si potesse adattare al piccolo mondo dell’editoria italiana. E lo faceva fin quasi all’arrivo della manager sull’onda di dati di vendita confortanti, di sfide continue e rilanci con il Corriere della Sera, e, per stare sui temi nostri, con tanta occupazione, tanti giornalisti, eccellenti professionisti, nonostante anche in quella redazione ci fossero sacche consistenti di precariato e ricorsi al giudice del lavoro. Le rotative macinavano e stampavano le speranze, i sogni, le capacità, le delusioni di una fetta importante del giornalismo italiano e di quello romano.

Il passaggio di testimone a Laura Cioli, reduce dalla penultima non brillante stagione di Rcs, ha dato all’editore il modo di tornare sullo stato di saluto del gruppo Gedi (figlio dell’aggregazione di Espresso con Secolo XIX e Stampa). Marco De Benedetti ha ripetuto in una lunga intervista al proprio quotidiano il mantra di nove anni di successi nonostante il crollo delle vendite e la rivoluzione digitale. Il gruppo sarebbe riuscito ad attrezzarsi per cogliere le nuove opportunità con bilanci sempre in attivo. Stimolato da Cresto Dina non si è potuto esimere dal ricordare come quei bilanci positivi, vergati senza chiedere soldi ai soci, siano il frutto dei tagli ai giornalisti: prepensionamenti, solidarietà, blocco del turnover, con, aggiungiamo noi, tagli ai compensi dei collaboratori, ridotti anche di numero, pur in presenza di un buon accordo sindacale interno.

Sui conti aziendali si allungano due ombre: una positiva, il tesoretto del lodo Mondadori, l’altra da dimostrare ma inquietante cioè l’inchiesta penale su retrocessioni di dirigenti a quadri per poter sfruttare gli ammortizzatori sociali del settore. Squadra che vince non si cambia e quindi l’editore ricorda al giornalista che il punto di equilibrio nei conti delle vendite ancora non si trova e la ricetta potrebbe essere identica. Quindi, immaginiamo, un’altra stagione di ammortizzatori sociali e prepensionamenti senza rischio reale di impresa per l’editore? Eppure le aspettative per la fusione Gedi erano altre. Doveva essere la mossa industriale sulla quale giocare una partita diversa: di innovazione di prodotto e processo. Sulla fusione sono stati sollevati, all’inizio della procedura, dubbi per la concentrazione delle testate. Il punto però era e resta industriale e giornalistico. La direzione di Ezio Mauro aveva lasciato un segno profondo e una identità radicata, riassumibile nelle dieci domande di Giuseppe D’Avanzo a Berlusconi. Mario Calabresi, un collega per bene, ha tentato di portare il giornale su una identità più generalista, meno collegata alle convulsioni dei partiti. Ma sulla politica, che è sempre stato un momento identitario di Repubblica, ha tenuto una barra renziana. Una scelta rifiutata da una parte dei lettori. Da qui i tentativi di recuperarli e/o di prenderne altri, anche attraverso l’arrivo di Sergio Rizzo, un acquisto molto costoso, molto ben pagato. Sulle qualità giornalistiche di Rizzo non ci sono dubbi, ma sarebbe interessante capire se questo innesto dal Corriere, in controtendenza con il blocco del turnover, abbia fatto recuperare lettori. Se cioè funziona sul piano editoriale e industriale la scelta di affidarsi alle grandi firme, e a quella in particolare caratterizzata dal proporsi come “anticasta”. Le incertezze industriali le vediamo sulle vicende relative alla chiusura della redazione romana delle pagine nazionali dei quotidiani Finegil. In un epos digitale, di comunicazioni a distanza in tempo reale, non sembrava necessario spostare i colleghi della carta a Torino.

È la seconda volta che De Benedetti jr evoca scenari di tagli sul versante giornalistico. La prima volta è accaduta nel pieno dello scontro sui giudizi politici di Scalfari e della querelle sulla linea editoriale del giornale. Se non si trova una quadra sul rilancio del giornale, analogico e digitale, se gli scenari non sono chiari, i giornalisti pare rappresentino pur sempre un bancomat da esplorare. Una logica che dopo la stagione renziana/lottiana di riforme degli ammortizzatori sociali, della nuova legge sull’editoria, speravamo di aver superato, ma che evidentemente continua ad essere un punto ineludibile nelle strategie degli editori.

Sappiamo che i colleghi all’interno del giornale non hanno voglia di abbassare la guardia e che, lavorando a testa bassa, consolidando tutti i prodotti, dal sito al quotidiano, vogliono tenersi stretti diritti e opportunità. Perché questo è il solo modo per difendere ciò che è stato costruito, di avere un’anima, non riducendosi a una linea grafica di bilanci, e per essere utili a quei cittadini che in Repubblica, nel suo spirito critico e nella rappresentazione di un mondo ben preciso, nei suoi articoli e nelle sue inchieste, vogliono trovare e giocare un ruolo ancora attivo nel nostro Paese.

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