di ATTILIO BOLZONI
La tutela dell’onore può essere riconosciuta anche a un assassino, a un boss mafioso che – fra l’altro, dettaglio che non è un dettaglio – è stato condannato per la strage di Capaci? E come, fino a che punto deve essere salvaguardata la sua “dignità”? La questione non è affatto banale ed è stata posta da una sentenza, seguita in questi giorni da un’aspra polemica che divampa sui social, per un articolo che ha diffamato un capo di Cosa Nostra definito “un gran bel pezzo di m..”.
Si può ed è giusto scrivere che Mariano Agate, capo mandamento di Mazara del Vallo, in stretti rapporti con Totò Riina, mandante di omicidi di magistrati, legato a logge massoniche segrete è quella cosa là – un pezzo di m.. – e soprattutto nel giorno della sua morte per cause naturali?
Secondo l’autore dell’articolo pubblicato sul blog “Malaitalia”, Rino Giacalone, sì. Secondo il giudizio della Corte di Appello di Palermo, che ha ribaltato una sentenza di primo grado condannandolo a una pena pecuniaria di 600 euro, no.
Il nostro collega si è difeso ricordando la famosa frase di Peppino Impastato (“La mafia è una montagna di m”) «e per criticare la mafia nella sua interezza, ho fatto incidentale riferimento ad un suo componente». Un richiamo affilato rivolto ai giovani lettori del suo blog che «hanno poca dimestichezza con gli eufemismi del ‘politicamente corretto’ ma piena cognizione ‘del linguaggio di strada’..».
Un’arringa che aveva convinto i giudici di primo grado. I familiari del boss hanno però presentato ricorso in Cassazione che ha dato loro ragione. In sostanza anche un mafioso, qualsiasi mafioso, ha diritto alla “dignità”. Processo tornato in Appello e condanna.
In attesa delle motivazioni di questo giudizio i difensori del giornalista, che hanno sempre sostenuto “l’assoluta irrilevanza penale” della vicenda manifestano “stupore” e annunciano che, se sarà il caso, si rivolgeranno alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Speriamo che il collega possa conquistare una nuova assoluzione in Cassazione ma, per quanto ci riguarda, il tema non ci sembra tanto giudiziario quanto culturale e giornalistico.
Si può ancora oggi, nel 2020 – con tutto il sapere che abbiamo accumulato sulle mafie – utilizzare quell’espressione di Impastato di più di 40 anni fa e urlato in un contesto di omertà dove la parola mafia nemmeno si pronunciava, per descrivere la mostruosità di un personaggio? O l’uso di quella terminologia è piuttosto il segno di un’informazione sulle mafie che è sempre più superficiale, galleggiante, un impasto di tanta retorica, poca sostanza e molto effetto? Se cominciamo a dare del “pezzo di m.” a questo o quell’altro mafioso, forse corriamo il rischio di dimenticarci quale è il nostro mestiere.