Pensioni, giornalisti di razza. Speciale
di Raul Wittenberg
Nel corso dell’attuale campagna elettorale dei giornalisti per il rinnovo degli organi dell’Inpgi, su Facebook è apparsa un’analisi da parte di una brava collega candidata per lo schieramento “Controcorrente”. E’ lo schieramento nel quale si presentano molti colleghi che hanno gestito l’istituto durante questa consiliatura in scadenza. Alcuni chiedono di essere confermati per mantenere le condizioni di miglior favore riservate ai giornalisti rispetto agli altri lavoratori dipendenti del settore privato iscritti all’Inps.
Madamina il catalogo è questo. Sorprende che, suo malgrado, la collega abbia fatto un elenco dettagliato dei motivi che in parte notevole hanno contribuito a condurre l’Inpgi sull’orlo della bancarotta: un disavanzo di 181,6 milioni di euro nel 2019, quasi la metà (46%) del totale dei ricavi di 392,6 milioni di euro, e ancora in crescita di altri 6 milioni. Un baratro. Chi ha gestito con questi risultati, dovrebbe fare un passo indietro. Eppure la collega pubblica una tabella con il confronto delle migliori prestazioni dell’Inpgi rispetto a quelle dell’Inps, ovviamente molto più costose nonostante la drammaticità dei conti. E chiede il voto per garantire quelle prestazioni migliori che si scontrano con il progressivo squilibrio di gestione colmo di pericoli ravvicinati.
L’intervento elettorale – che si guarda bene dall’indicare misure credibili per arrivare all’equilibrio dei conti – fa la guerra all’altro schieramento che vorrebbe mettere in sicurezza le pensioni dei giornalisti, soprattutto di ultima generazione, tornando al regime pubblicistico una volta superata la implacabile legge sulla privatizzazione. Un lettore non giornalista salterebbe sulla sedia strabuzzando gli occhi: ma come, un ente che gestisce la previdenza obbligatoria a ripartizione, con vincoli di legge su contributi e prestazioni non è pubblico???
La grande riforma. Ebbene sì, caro lettore, l’istituto nazionale di previdenza per i giornalisti italiani è stato privatizzato per sfuggire all’unica grande riforma di sistema operata in Italia dopo il 1969, quella del 1995 nota come la riforma Dini. La riforma che ha introdotto il calcolo contributivo con cui si misura l’importo della prestazione sui contributi versati (non più sulla retribuzione) e sulla speranza di vita a partire dal pensionamento. La riforma, con un lunghissimo periodo di transizione, fu resa necessaria non solo dai numeri dell’Inps già in forte sofferenza (dagli anni ‘80), ma soprattutto dalle proiezioni statistiche, demografiche, e strutturali riguardo la produzione. Infatti la produzione di beni e servizi genera reddito, il quale contribuisce a finanziare le pensioni.
Le proiezioni, sul quarto di secolo, scoprivano rallentamenti dell’economia, precarizzazione del lavoro, una progressiva denatalità che sguarniva le generazioni attive contribuenti il sistema. Parallelamente le conquiste della scienza aumentavano progressivamente la speranza di vita delle persone. Più anziani più a lungo percettori di pensioni , meno giovani a finanziarle in virtù di quel grande patto generazionale che caratterizza la civiltà dell’Europa moderna.
Le proiezioni scoprivano che l’ingresso delle nuove tecnologie avrebbero rivoluzionato le strutture produttive di beni e servizi con una progressiva automazione e sostituzione dell’uomo con la macchina, come da poco era avvenuto nei giornali con i computer al posto dei tipografi.
Previsto tutto, esattamente tutto quello che sta accadendo oggi, 25 anni dopo, con sorprendente puntualità.
L’altero rifiuto. Quella riforma del 1995 ebbe il merito di essere stata scritta insieme ai sindacati confederali garantendo un ingresso morbido nel nuovo sistema. Fu invitato anche il sindacato dei giornalisti, che oppose un fiero rifiuto. Non volevano entrare nel “carrozzone” dell’Inps (oggi sappiamo qual è il vero carrozzone). Non volevano rinunciare a una condizione di privilegio così sintetizzata. Rendimento pensionistico delle retribuzioni di quasi un punto superiore al generale 2 per cento l’anno: una pensione di 2.000 euro al mese dell’Inps, nell’Inpgi alle stesse condizioni poteva diventare di 2.450 euro. Sul fronte delle entrate, aliquota contributiva di due punti inferiore a quella generale.
Menzogne. All’epoca il presidente dell’Inpgi, pur di sostenere l’insostenibile arrivò alla menzogna, roba da radiazione dall’ordine. Disse pubblicamente che i giornalisti avevano diritto a pensioni maggiori perché pagavano contributi maggiori e quindi non erano privilegiati. E invece era vero il contrario!! Solo tre o quattro colleghi, fra i quali chi scrive, dichiararono all’Ansa la loro contrarietà ad una privatizzazione pericolosa per la categoria. Argomentando che le tendenze dell’economia alla base della riforma Dini valevano per tutti, anche per i giornalisti.
Privatizzazione. Ovviamente l’Inpgi a quelle condizioni non poteva restare sotto l’ala protettiva dei conti pubblici a copertura di futuri disavanzi. “Facciamo da noi!” tuonarono con altero orgoglio i giornalisti. In particolare i componenti degli organi che si vedevano sfuggire soldi e poltrona. Nel 2019 l’Inpgi ha versato ai nostri colleghi per le sole indennità 7.000 euro in più, arrivando a 800 mila euro. La posta in gioco non è priva di interesse. Nell’Inps imprese e sindacati sono nel consiglio di sorveglianza composto da 21 persone in rappresentanza di altrettante associazioni di interesse. Nell’Inpgi il Consiglio generale è composto da 60 persone in rappresentanza di quattro gruppi di interesse più il ministero.
Aiutato dall’arroganza sprezzante e menzognera di buona parte dei giornalisti, il legislatore fu durissimo nel regolare la privatizzazione. In caso di bancarotta, l’Inpgi veniva sciolto, tutti i giornalisti sarebbero entrati nel regime pubblico, i pensionati avrebbero ricevuto la pensione sociale. Un massacro.
Tutto questo perché l’Inpgi è sostitutivo dell’Assicurazione generale obbligatoria (Ago) a ripartizione. Altra cosa se fosse un Fondo integrativo come quello che abbiamo già, che è volontario e a capitalizzazione.
Diritto all’informazione. “Difendere l’Inpgi privato per difendere il diritto all’informazione”. Così si sente dire. Ma che cosa c’entra? In che modo un giornalista nel regime previdenziale pubblico non avrebbe diritto a fare informazione? Dov’è la logica? In Francia non risulta che i giornalisti siano in un ente privato obbligatorio con funzioni pubbliche, ma non per questo sono limitati nell’esercizio della loro professione.
Come è avvenuto per la riforma Dini, il sindacato dei giornalisti dovrebbe concordare con lo Stato un rientro soft nel sistema pubblico. E’ un dovere per noi giornalisti anziani, nei confronti dei colleghi più giovani che rischiano la pensione sociale. Certo, occorre allargare la platea degli operatori dell’informazione – i comunicatori adesso rifiutano un ente a pezzi, ma dopo? Rivedere trattamenti esagerati con le cautele del caso. Restituire allo Stato la gestione degli ammortizzatori sociali. Insomma: aumentare le entrate e ridurre le uscite. Come sempre in questi casi.