Crisi Inpgi1: le favole che ci hanno raccontato. E ci raccontano ancora

L’Istituto è solido. Il patrimonio cresce di centinaia di milioni. Le pensioni dei giornalisti sono al sicuro. Ma non era vero. E voi, vi fidate ancora?

 

di  Daniela Stigliano – Giunta Fnsi e consigliera uscente del Consiglio generale Inpgi (candidata per Sos Inpgi-Garanzia pubblica per le pensioni) 

 

L’Inpgi è in profondissima crisi da molti anni. Lo denuncia almeno dal 2011 la Corte dei Conti, oltre a qualche voce isolata e messa all’indice. Eppure, la maggioranza che ha guidato e guida ancora il nostro Istituto di previdenza (oggi riunita in #ControCorrente) ha fatto finta di nulla pur di mantenere il potere (e i lauti compensi) e ha diffuso la propaganda di un Inpgi solido, di un patrimonio in fantasmagorica crescita, di pensioni dei giornalisti al sicuro. Tutto svelatosi poi tragicamente falso.

Ancora oggi quella maggioranza (e pure ahimè qualcuno di una presunta opposizione), dopo una riforma lacrime e sangue inutile e tardiva, racconta la fiaba di un salvifico ingresso dei comunicatori che rimetterebbe in sesto il carrozzone disastrato di via Nizza. Tutte favolette, ben orchestrate e sostenute dall’armata al comando della Fnsi, che però illudono anche ora tanti colleghi. E che rischiano di portarci al fallimento definitivo, passando prima per un’ennesima riforma delle nostre pensioni. A dimostrarlo ci sono numeri e fatti, tutti verificabili dai documenti ufficiali.

Leggeteli, prima di decidere a chi consegnare l’Inpgi con il vostro voto alle elezioni di febbraio. Perché esiste un’alternativa, di persone e di strade da percorrere per tutelare le pensioni attuali e future.

Pensioni al sicuro

Una favola raccontata e scritta fino a poco tempo fa, e usata soprattutto nella campagna elettorale per il voto del 2016 dal gruppo che oggi si chiama #ControCorrente: «Non preoccupatevi, cari colleghi, le pensioni dei giornalisti sono al sicuro. Ci pensiamo noi…». Ma lo sapevano bene: le nostre pensioni, attuali e future, non erano invece per nulla al sicuro nel 2015 (e neppure prima). E ancora meno lo sono oggi, dopo la politica scriteriata portata avanti ancora in quest’ultima consiliatura dalla maggioranza dell’Inpgi e della Fnsi.

In cassa, l’Istituto ha liquidità per andare avanti al massimo un paio di anni. Facciamo un po’ di conti. Ogni anno, i soldi che entrano per contributi e altro sono inferiori alle uscite per pensioni, stipendi e spese varie per circa 180 milioni di euro, cifra destinata purtroppo ad aumentare anche a causa di purtroppo prevedibili chiusure, licenziamenti, crisi aziendali e dei nuovi prepensionamenti varati dal governo con la legge di Bilancio 2020. A settembre 2019 c’erano in cassa 385 milioni in titoli vari (a valori di mercato), liquidità sui conti e immobili, sempre più difficilmente vendibili perché i pezzi di pregio sono già stati collocati e ora restano quasi esclusivamente abitazioni, offerte a prezzi superiori a quelli di mercato. Con 385 milioni, che in quattro mesi si saranno inevitabilmente ridotti, all’Inpgi restano due anni di respiro, forse anche meno.

I bilanci sono in utile

L’entusiasmo per il “gioiellino” Inpgi che macinava utili di bilancio traspare in ogni relazione e comunicazione ai giornalisti negli anni fino alla vigilia della iniqua e pesante riforma presentata nel 2015 e poi completata con un secondo step nel 2016 (l’approvazione dei Ministeri vigilanti è arrivata nel 2017). Tutto merito, si narrava, della capacità dei vertici e del Cda di produrre plusvalenze sul patrimonio immobiliare. Plusvalenze di carta, però, ottenute solo grazie al conferimento del tesoretto di case dell’Inpgi al Fondo immobiliare “Giovanni Amendola”, costituito nel 2013. Senza quelle rivalutazioni, lo squilibrio tra entrate e uscite sarebbe diventato di dominio pubblico, “rovinando” l’immagine di un gruppo dirigente capace e competente. Mentre il primo rosso all’ultima riga del bilancio, nonostante gli ennesimi “fuochi di artificio” del conferimento degli immobili, arriva solo nel 2017 (-100,6 milioni di euro), per aggravarsi nel 2018 (-161,4 milioni) e nelle previsioni 2019 (-151 milioni) e 2020 (-193 milioni).

L’allarme della Corte dei Conti era però da anni noto a tutti, nelle stanze di via Nizza. Era infatti stato lanciato almeno dal 2010: l’andamento della gestione previdenziale dell’Inpgi, scriveva l’Organo di controllo, presenta «già nel medio periodo, profili di criticità», dovuti «non solo al generale trend demografico, ma anche a una crisi del mondo dell’editoria con negativi, non trascurabili, effetti sulla situazione occupazionale».

Negli anni successivi, l’analisi della Corte si fa sempre più preoccupata per l’evidenza chiara che arrivava da tutti gli indicatori, dalla diminuzione del rapporto tra giornalisti in attività e pensionati, allo squilibrio tra entrate e uscite previdenziali, alla copertura delle pensioni correnti con la riserva Ivs. Questo anche dopo la prima, parziale riforma del 2011. E pure dopo l’intervento lacrime e sangue del 2015-2016: «I risultati dell’esercizio 2017», scrive la Corte nell’ultima relazione redatta e pubblicata, «fotografano un quadro in deciso e assai preoccupante peggioramento». E poi aggiunge: «Anche alla luce delle proiezioni attuariali disponibili, gli effetti del progetto di riforma avviato nel 2015 e completato nel 2017 si sono rivelati insufficienti allo scopo di conseguire condizioni di equilibrio strutturale» (tutte le relazioni della Corte dei Conti sono scaricabili dal sito Inpgi a questo link, in fondo alla pagina).

Il patrimonio è in crescita

Strettamente correlata all’entusiasmo per i bilanci in attivo è la vicenda della miracolosa crescita del patrimonio dell’Inpgi. A fine 2015, quando si preparavano alla campagna elettorale per il rinnovo degli organismi di via Nizza, i consiglieri di amministrazione uscenti (alcuni poi rieletti e oggi di nuovo candidati) ostentavano il risultato di un aumento delle casse dell’Inpgi di 5-600 milioni di euro, per un patrimonio che toccava i 2,4 miliardi di euro, grazie alla rivalutazione degli immobili conferiti al Fondo “Giovanni Amendola”. E chi faceva notare che le plusvalenze erano solo sulla carta ma non era entrato in cassa neppure un euro in più, veniva additato con arroganza come incompetente e disfattista. Ancora oggi, si favoleggia di una dirigenza che è stata capace di fare miracoli, negli investimenti, come una sorta di moltiplicazione di pani e di pesci. Ma la realtà è differente.

Basta leggere i bilanci (l’ultimo con Stato patrimoniale è del 2018), fare qualche ragionamento e qualche conto, per trovare la verità.

Partiamo dagli investimenti, che si dividono in tre gruppi:

  1. quelli in immobili veri e propri, il cosiddetto mattone, che si può vendere ma con tempi incerti e non brevissimi e a prezzi che dipendono da vari fattori;
  2. gli investimenti finanziari a lungo termine, meno liquidi e quindi non vendibili dall’oggi al domani, come fondi hedge (speculativi), private equity (fondi che sostengono le imprese, start up o in riorganizzazione) e i fondi immobiliari, che hanno “in pancia” il mattone ma sono strumenti finanziari;
  3. i fondi azionari, obbligazionari o di altro tipo che hanno un valore certo ogni giorno e sono immediatamente vendibili, ed equivalgono più o meno a denaro sonante (anche se il loro valore può variare in base all’andamento dei mercati).

Nel 2010, il valore complessivo degli investimenti era di 1,477 miliardi: la quota più importante era negli immobili, 713 milioni, seguiti dai fondi “liquidi”, 647 milioni, e da 117 milioni di investimenti finanziari a più lungo termine. A fine 2018 (ultimo dato reperibile dai bilanci) il totale era di 1,381 miliardi: il mattone valeva 7 milioni, i fondi “liquidi” 362 milioni, gli investimenti finanziari a lungo termine 1.012 milioni. Se guardiamo il totale, sembra che la grande tempesta della crisi dell’informazione abbia fatto contrarre il nostro “tesoretto” appena di una novantina di milioni. Eppure, noi sappiamo che in questi anni l’Inpgi ha dovuto cedere investimenti per quasi 1 miliardo. Come è possibile che, sulla carta, tutto sembri invariato o quasi?

La “magia” è tutta nella famosa rivalutazione degli immobili conferiti al Fondo “Giovanni Amendola”: con il trasferimento, il loro valore è quasi raddoppiato e la differenza è stata pure calcolata come plusvalenza, ovvero “guadagno”, e ha fatto figurare utili di bilancio che non corrispondevano a soldi realmente entrati. Proprio il fatto che il totale degli investimenti non sia crollato nasconde il grande problema del nostro Istituto, che è un po’ come i nobili decaduti: sembrano (ancora) ricchi, ma rischiano di non avere i soldi per fare la spesa.

Il meccanismo non è semplice. Proviamo allora a capire meglio con un esempio.

Abbiamo un’azienda che per anni funziona bene, ma alla sua costituzione avevamo sottoscritto un vincolo che non può essere cancellato né contrattato: dobbiamo sempre avere a disposizione 800 mila euro, tra soldi e investimenti vari, altrimenti dobbiamo chiudere bottega e liquidare tutto. All’inizio avevamo in cassa 600 mila euro più 4 immobili pagati a suo tempo 100 mila euro l’uno, per un totale di 400 mila euro, quindi tutto bene, anzi abbiamo 200 mila euro più del necessario (il totale fa 1 milione). Negli anni, abbiamo qualche problema di entrate, che non riescono a coprire le spese, e i soldi in banca diminuiscono.

Quando capiamo che rischiamo di andare sotto quota 400 mila euro di cash (ovvero sotto gli 800 mila euro totale), ci viene un’idea geniale: gli immobili sul mercato potrebbero valere molto più di quei 100 mila euro l’uno, se venduti potremmo ricavarne persino il doppio, quindi li possiamo rivalutare (pur senza venderli). E così facciamo: dall’oggi al domani i 400 mila euro valgono 800 mila, il vincolo iniziale è garantito, facciamo persino vedere ai nostri azionisti che abbiamo “guadagnato” 400 mila euro. E possiamo spendere i nostri soldi sul conto, sperando però di non azzerarlo del tutto. Altrimenti, prima ancora di chiudere l’azienda, dovremmo vendere davvero i nostri immobili, chissà a quale prezzo, e potremmo non avere liquidità per pagare le spese.

È un po’ più chiaro quello che è successo all’Inpgi? Gli immobili abbiamo iniziato a venderli, a prezzi in molti casi diversi da quelli che avevamo ipotizzato quando sono stati trasferiti al Fondo “Giovanni Amendola” (e messo a bilancio con relative plusvalenze milionarie), ma soprattutto abbiamo speso gran parte del nostro investimento liquido. Al punto che, nel giro sì e no di due anni, non avremo più soldi per pagare pensioni, stipendi dei dipendenti e tutte le altre spese.

Quanto alla favola del patrimonio in crescita, utilizzare i valori di mercato per giustificare importi superiori è non solo un azzardo, ma un grosso rischio. Soprattutto quando si tratta di immobili. Leggete la raccomandazione della Corte dei Conti nell’ultima relazione, relativa al bilancio 2017: «Questa Corte invita gli organi di amministrazione della Cassa ad effettuare una puntuale ricognizione delle vicende gestionali del Fondo Inpgi, non senza valutare attentamente i fattori di rischio afferenti alle singole linee di investimento, al fine di evitare – a fronte di un andamento dei mercati che non può dirsi stabilizzato – di incorrere in perdite durevoli che si rifletterebbero negativamente sul patrimonio, con effetti sugli esiti della gestione istituzionale». Come dire che persino il patrimonio messo a bilancio potrebbe subire contrazioni pericolose.

Patrimonio netto e riserva tecnica

Ancora più importante, anche se più tecnico, è un altro dato di bilancio: il patrimonio netto, che dovrebbe indicare le risorse di cui un’azienda dispone effettivamente dopo aver decurtato i costi e i debiti a breve e a lungo periodo, e che è strettamente correlato alla riserva tecnica, quella che garantisce per legge il pagamento delle pensioni in essere. A fine 2010 il patrimonio netto dell’Inpgi era pari a 1,725 miliardi di euro, è un po’ aumentato nei tre anni successivi (1,788 a fine 2013), per balzare a 1,906 nell’esercizio 2014, il primo successivo alla creazione del Fondo “Giovanni Amendola”, e poi iniziare a diminuire, con un vero e proprio crollo nel 2018 (1,574 miliardi) e una previsione di 1,407 a fine 2019.

La riserva tecnica, in base alla legge di privatizzazione, dovrebbe garantire almeno 5 annualità delle pensioni in essere, che sono pari a 537 milioni di euro a fine 2019, con previsione da 552 milioni per il 2020. Una successiva norma ha cristallizzato nel tempo questo obbligo alla garanzia di 5 annualità delle pensioni in essere a fine 1994, che sono pari a 149 milioni. Una bella differenza, con tutta evidenza.

Anche la riserva legale è variata, in questi anni dal 2010. Ma con un andamento più cauto, rispetto a investimenti e patrimonio netto, di cui dovrebbe essere una parte mentre oramai lo costituisce praticamente per intero. Anzi, dal bilancio 2017 nei conti a fine esercizio diventa superiore, per poi stare un po’ sotto dopo la sottrazione delle perdite di bilancio. Un calcolo sempre sul filo del rasoio.

Dieci anni fa la riserva tecnica era infatti pari a 1,641 miliardi, nel 2011 è balzata a 1,707 miliardi, poi è salita gradualmente fino ai 1,820 miliardi del 2017, per poi segnare un primo crollo a 1,719 nel 2018, poi a 1,558 nel 2019, essere oggi di poco superiore a 1,4 miliardi e, in base alle previsioni di perdita del 2020, andare verso quota 1,2 miliardi a fine esercizio, lo stesso dato del 2005: come essere tornati indietro di oltre 15 anni. Nel frattempo, come sappiamo bene, l’ammontare delle pensioni effettivamente pagate dall’Inpgi è esploso. E se le 5 annualità del 1994 (745 milioni di euro) sono ancora formalmente garantite, la copertura delle pensioni in essere è invece appena di 2 annualità: per assicurare le 5 di legge ci vorrebbero infatti 2,76 miliardi di euro.

Un dato che dovrebbe preoccupare non poco. E non soltanto gli attuali colleghi pensionati. Perché la garanzia del pagamento delle pensioni non è solo la ragione stessa dell’esistenza dell’Inpgi ma è anche elemento fondante della sua sopravvivenza.

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