E se Netflix ci indicasse la strada?

di Lazzaro Pappagallo, Segretario Associazione Stampa Romana 

 

 

 

Netflix entra nell’Anica. Netflix entra nella stanza dei bottoni del cinema italiano.

Detta così fa un po’ ridere.

Come capacità di spesa e di penetrazione del mercato audiovisivo Netflix dispone di un arsenale di fuoco che Rai, Mediaset, Sky, Cattleya, Lucky Red, possono solo sognare.

Eppure ha fatto bene Francesco Rutelli a chiudere l’accordo e ad aprire agli americani.
Ha fatto bene per una piccola ragione territoriale.

 

L’arrivo di Netflix a Roma significa che la Capitale non è una lost city, può ancora attrarre investimenti e risorse internazionali come una regina dell’audiovisivo, come l’antica Hollywood sul Tevere.

Ha fatto benissimo per un’altra ragione.

Il mondo dell’audiovisivo si allarga e il cinema ne prende atto. Si passa dal cinemascope al piccolo schermo, consentendo agli eredi della televisione catodica di essere conosciuti come interlocutori reali.

Fino all’anno scorso la principale kermesse cinematografica europea, il festival di Cannes, chiudeva le porte ai film prodotti da Netflix perchè il cinema è altro in nome di una superiorità morale ed estetica(!).

 

E’ un tempo superato anche da questo accordo.

Ma nel nostro piccolo mondo dell’editoria che il giornalismo sia altro dall’evoluzione digitale in nome di una superiorità morale ed etica (!) sono ancora in tanti a pensarlo.

Ancora nei giorni scorsi l’attenzione di Fieg e in parte di Fnsi è stata tutta centrata sulla richiesta di oscurare Telegram.

 

All’inizio era proprio così.

Non si dovevano oscurare i singoli canali che distribuivano illegalmente in modo gratuito quotidiani e rassegne stampa ma l’intero social.

La dimostrazione più lampante di una certa inettitudine a capire come funziona il mondo dei media sociali.

Corretta la rotta e ridimensionata l’ambizione ci si “accontenta” di sequestrare venti canali in attesa che la nostra legislazione, leggi Agcom, possa intervenire su Dubai.

Questa rivendicazione è formalmente corretta ed è altrettanto ineccepibile della legalità applicata al lavoro giornalistico e al valore economico ma, è il caso di dirlo, un po’ ipocrita.

Non sono stati gli editori di qualsiasi testata, persino delle agenzie di stampa, a mettere in chiaro sul web i notiziari?

 

Non è stata quella, all’insegna di una abbuffata colossale di notizie, di una ipertrofia di ultim’ora (o peggio di gattinie e affini) l’inizio della fine e della dispersione del senso sociale del nostro lavoro e del relativo deprezzamento economico?

In pratica l’approccio al digitale è stato approssimativo, fallimentare, basato sulle quantità per clic pubblicitari oppure sullo scambio di dati e notizie con gli over the top con il risultato di aver consegnato a questi ultimi le chiavi di casa.

 

Torniamo a Netflix.

La piattaforma americana di film e serie può indicare la strada.

Intanto non è gratuita. 

Si paga poco per la quantità (e la qualità) di titoli in campo ma si paga.

Si paga per vedere potenzialmente tutto. Non si paga l’abbonamento per vedere solo i titoli Fox o Paramount ma per scegliere all’interno di una rosa sufficientemente lunga. Sarà poi il cliente cittadino utente a fare la sua scelta. A quel punto potrà dedicarsi a una sola casa produttrice o a un solo regista (se vogliamo accantonare per un attimo la questione vil danaro ed essere più nobili e intellettuali) oppure potrà mischiare e scegliere la sua playlist. Potrà scegliere l’ultima uscita 2020 o la saga del Padrino iniziata nel 1972.

Nel consumo mediale attuale. e la musica con le playlist di Spotify ne è esempio chiaro come il sole, non conta tanto la fedeltà al singolo artista o alla singola testata quanto la contaminazione, la combinazione, la mescolanza, il meticciato. 

 

Il tutto all’interno di una user experience, di una qualità del consumo ineccepibile.

Netflix e i suoi affini hanno distrutto tutti i siti pirata in cui si cercavano film e serie di ogni tipo innanzitutto perchè incomparabile era ed è la qualità del segnale audiovideo, il godimento dell’esperienza. Nel nostro mondo assistiamo ancora a format digitali mutuati dal quotidiano con una imperdonabile trascuratezza e una difficoltà nella lettura che consegnano il lettore casuale randomico al saccheggio piratesco dei canali social pirati.

Questo è dunque il segno dei tempi.

Su questo segno dei tempi gli editori devono battere un colpo. E anche bello sonoro.

Se invece continuano a chiedere allo Stato danaro a fondo perduto, 400 milioni di euro, per ospitare le storie della ripartenza industriale o politica dal Covid, come se l’editoria fosse la Gazzetta Ufficiale o il Reader’s digest, in cui l’elemento di terzietà rispetto ai poteri diventa residuale se non dannoso, a voler liberalizzare la distribuzione e la vendita cartacea, consegnando a morte certa gli edicolanti oggi gestori dell’ultimo miglio del servizio pubblico informazione, ma senza offrire alcuna alternativa seria di distribuzione digitale del prodotto allora siamo tutti destinati alla sconfitta. I giornalisti con gli editori. E non ci sarà legge sul copyright che tenga.

 

Ma oggi è il primo maggio. 

E questo piccolo contributo non è una celebrazione stantia del rito ma vuole ribadire la speranza che il nostro mondo, essenziale per una democrazia compiuta, si salva se saremo in grado di ragionare su noi stessi, su come sta cambiando il nostro lavoro, sulla modificazione dei codici produttivi per approdare a quel giornalismo di ricerca e racconto delle notizie e di dialogo continuo con i lettori tramite social ben usati che è il segno del miglior giornalismo contemporaneo.

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