di Alessandro Gaeta – Giornalista Rai e Consigliere dell’Associazione Stampa Romana
Nel giro di pochi giorni due diversi tribunali calabresi impegnati in processi alla Ndrangheta hanno deciso che esiste un limite a chi lavora con le immagini televisive. Decisioni che non tengono conto dell’interesse sociale sollevato dai processi di mafia. Questa censura trae origine dal processo “Rinascita Scott”, considerato il parallelo del celebre Maxi di Palermo. Con un equilibrismo giuridico nell’aula bunker di Lamezia Terme sono consentite le riprese ma non il loro utilizzo che sarà possibile solo dopo la sentenza. In sostanza una limitazione del diritto di cronaca dei reporter televisivi che va avanti dal febbraio del 2021.
Il provvedimento ha già fatto giurisprudenza. Tanto è vero che anche nel processo Imponimento che si svolge sempre a Lamezia Terme, la Corte ha disposto nello stesso modo. A Vibo Valentia invece, i giudici sono andati oltre, vietando del tutto l’ingresso delle telecamere. Per la presidente Teresa Macrì occorre tutelare sia l’identità del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso protagonista di molti processi in corso tra Lamezia e Vibo Valentia che il diritto alla riservatezza degli imputati. Peccato che i testimoni sotto protezione siano ascoltati in videoconferenza e inquadrati di spalle e che la tutela della riservatezza degli imputati non tenga conto del diritto dei cittadini ad essere informati.
Difficile allontanare il dubbio che certe forme di “garantismo” siano applicate piuttosto a senso unico facendo venire il sospetto che l’attuale imbarazzo nasca dal nome stesso di Emanuele Mancuso, rampollo di uno dei clan di ndrangheta più feroci e ramificati dentro le istituzioni. Le sue accuse sugli intrecci tra mafia, politica e massoneria nei confronti di imprenditori, medici, periti, ambasciatori, professori universitari, sacerdoti, impiegati pubblici, forze dell’ordine, politici locali e che coinvolgono in special modo avvocati dei boss diventati consigliori (come quelle rivolte a Giancarlo Pittelli, per anni difensore dei Mancuso ed ex deputato di Forza Italia), sono paragonabili per importanza al ruolo che ebbe Tommaso Buscetta nei confronti di Cosa Nostra.
È dalla decisione del pentito Mancuso di collaborare con la giustizia che il cosiddetto garantismo a senso unico è tornato all’offensiva. Non a caso si sono moltiplicate le critiche e gli attacchi anche nei confronti di Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro dove il collaboratore di giustizia ha vuotato il sacco mentre a Mancuso viene impedito di vedere con regolarità la figlia di quattro anni e di svolgere un pieno ruolo genitoriale mentre la madre che invece non ha alcuna intenzione di collaborare continua a vivere sotto lo stesso tetto con la piccola. Ma, ancora più grave dal punto di vista dell’informazione libera e della stessa sicurezza di questo prezioso collaboratore di giustizia, alle sue testimonianze in tribunale è negato l’approdo sui siti e in televisione.
Tutto si regge su un filo di lana: la diffusione delle registrazioni condizionerebbe – dicono i magistrati – il dibattimento e la genuinità delle testimonianze successive. Una motivazione assai discutibile perché a tutte le parti del processo vengono fornite a stretto giro le trascrizioni di quanto detto in aula. Insospettisce dunque che tali contorsioni normative colpiscano sempre lo stesso collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, un uomo che con le sue lucide deposizioni ricche di imbarazzanti dettagli, raccolti di prima mano all’interno della sua cerchia familiare, sta mettendo a nudo il vero potere di ndrangheta e massoneria. Un potere che non è solo criminale ma soprattutto è prepotentemente innestato nel tessuto sociale italiano.