Il giornalismo in guerra: coraggio e dovere civile

di Marco Ansaldo

Entusiasmo o depressione? Coraggio o stanchezza? La postazione di Istanbul dove vivo e lavoro da tanti anni non è solo un luogo oggi cruciale, ma uno spazio formidabile per osservare – pure – il giornalismo. Quello degli altri, straordinari colleghi che abitano e operano in aree complesse, a dir poco, come Medio Oriente, Mar Nero, Balcani, Asia occidentale, Caucaso, Nord Africa. E il nostro, in zone altrettanto dinamiche ma di certo più decrittabili, in Occidente, Europa, Italia. Perché ogni giorno, da quella metropoli piazzata a cavallo fra due Continenti, il panorama davanti ti fa misurare la distanza fra le loro difficoltà e la nostra stanchezza.

Questo luogo di osservazione unico fa toccare con mano le esclusioni drammatiche dei cronisti non allineati dagli eventi politici in Turchia e il rischio della galera. L’impossibilità per gli organi di stampa locali nel raccontare la spaventosa repressione degli ayatollah contro la rivolta delle donne e dei giovani in Iran. La ricerca spasmodica di riferire con equilibrio le fasi della guerra fra la Russia e l’Ucraina. La paura – perché anche questa è in gioco – a descrivere i massacri della popolazione perpetrati da milizie incontrollate nel nord della Siria. I timori a entrare nel Nagorno-Karabakh conteso fra Armenia e Azerbaigian. I dubbi di mettersi contro sistemi tutt’altro che cristallini come quelli di svariati Paesi balcanici. Le minacce a riportare i rivolgimenti in Egitto o le azioni militari in Libia, pena dover affrontare la mannaia di quei governi.

Eppure, lo si può constatare ogni giorno da quel fronte, il coraggio e la forza non mancano. Giovani reporter e vecchi inviati si mettono in viaggio, al computer o alla telecamera, sfidando regimi impassibili pur di cercare di fare il loro mestiere al meglio. Quel che non manca, soprattutto, è l’entusiasmo. Direi di più: la consapevolezza sul dovere civile del proprio mestiere.

Poi si torna in Italia, e quello che salta agli occhi è, fra molto altro, la prodigiosa bravura dei giornalisti più competenti, e al tempo stesso la depressione della categoria. Spesso a ragione, si tratti di cronisti considerati perennemente giovani a caccia di sicurezza e contratti, o di capi redattori anziani di elevatissima esperienza ma sull’orlo del crollo per l’imminente o avvenuta dismissione. 

Non solo qui da noi, ma in tutto il mondo e pure nel Vicino Oriente, il giornalismo è in crisi per diffusione di copie cartacee e diminuzione della credibilità. Una fase storica che va compresa, affrontata ma superata. Occorre reinventarsi. Capire quel che succede fuori. Reinventare il proprio modo di guardare alla professione, a cominciare da sé stessi, ma continuando a combattere tenendo ben fermi i cardini fondamentali del mestiere.

Conservando, anzi proteggendo i codici genetici del ruolo essenziale di watch dog, di cane da guardia dell’informazione: che si abbia di fronte un governo illiberale europeo o un regime dispotico nemmeno troppo lontano. Farlo, dall’Italia o dal Mar Nero, l’approccio non cambia. L’impegno è di credere fermamente nel valore universale della nostra professione, a dispetto di tutti i macigni che vengono posti. E di provare a costruire un giornalismo migliore.

Ce n’è bisogno, moltissimo, tanto a Istanbul quanto a Roma.         

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