Come raccontare la guerra in Siria dribblando la censura

di Marco Ansaldo – Corrispondente Repubblica da Istanbul 

 

 

La recente offensiva militare turca in Siria? Tutt’altro che semplice da seguire per gli inviati nella regione. E’ vero, una grande storia da raccontare. Una storia tremenda, pure, per la povera gente rimasta impigliata nella tenaglia delle potenze che si sono disputate quel tutto sommato piccolo, ma sempre più prezioso pezzo di territorio. Oggi il cosiddetto Rojava siriano, il Kurdistan del Nord ovest, è attraversato non solo da curdi: ma da russi, turchi, americani, siriani. Dalle milizie filo turche e le milizie filo siriane, spesso entrambe incontrollabili e protagoniste di delitti efferati e fuori da ogni responsabilità (vedi l’uccisione brutale di Hervin Khalaf, la leader curda del Partito del futuro). Oltre che dai servizi segreti di questi e di molti altri Paesi. Decisamente, la Siria del Nord è adesso l’area più pericolosa e meno controllabile del mondo.

Per i corrispondenti stranieri lavorare così nella zona, oltre che rischioso, diventa complicato. Entrarci un’impresa quasi impossibile, almeno nelle prime settimane dell’attacco, quelle scandite da tregue e cessate il fuoco completamente disattesi, da accordi fatti sulla pelle delle popolazioni locali, da improvvisi nuovi raid e colpi di scena spettacolari (vedi quello americano alla caccia del fondatore e leader dell’Isis, Abu Bakr al Baghdadi).

In quest’area delimitata, il fronte nord è del tutto impermeabile. E’ quello al confine fra la Turchia e la Siria, da dove a un certo punto si scorge la città di Kobane simbolo della resistenza curda, chiuso dalle truppe di Ankara che impediscono l’ingresso dove i loro mezzi e blindati si sono piazzati, spingendosi fino a 35 chilometri nel territorio siriano dal quale i curdi hanno accettato obtorto collo di ritirarsi. La sola possibilità di entrare, e non certo esaltante, è quella di accreditarsi come giornalisti “embedded”.

L’ha fatta la Cnn americana, limitandosi a passare per vedere solo quello che l’esercito turco permette di filmare. Su questo confine i turchi hanno aperto due punti stampa, ad Akcakale e a Ceylanpinar. Da lì gli inviati della Bbc e di Al Jazeera English hanno fatto servizi tutto sommato esaustivi e completi, coadiuvati da informatori oltre frontiera, ed è la stessa scelta fatta da Repubblica. L’alternativa, per chi si trovava invece nella parte est di questo quadrante (perché a sud resta solo Damasco, dove si entra esclusivamente con un visto preventivo), è l’ingresso dal Nord Iraq con un permesso dato dai curdi, rischiando però una volta entrati in Siria di essere considerati come spie, se fermati.

Queste condizioni permettono in ogni caso, se si vuole seguire l’evolversi dell’offensiva turca in Siria, di lavorare con informazioni sufficienti a coprire il caso in modo adeguato. Almeno dal fronte. Quello che colpisce, poi, una volta rientrati a Istanbul – capitale internazionale, città multietnica, già sede di un Impero – è la progressiva e plumbea cappa di “disinformatia” che permea, non da oggi ma ormai da tempo, l’intera Turchia. Con le televisioni e i giornali nelle mani del governo conservatore a trazione religiosa controllato da Recep Tayyip Erdogan, e i social media liberi solo in parte, è a volte difficile mettersi a ragionare con cittadini spesso vittime di una narrazione pilotata e parziale. E se in Occidente, e in Europa, è palese la violazione di diritti e di accordi internazionali scattata con quella definita da Ankara come una semplice “incursione”, in Turchia la ragione citata è “la difesa dal terrorismo”.

Dove, persino per i repubblicani all’opposizione in Parlamento, l’esercito curdo in Siria è da considerarsi “terrorista” alla stregua del Partito dei lavoratori del Kurdistan (il Pkk) locale. Una differenza quasi semantica, dunque, divide l’Unione Europea e gli Stati Uniti dalla Turchia: perché se qui i militari curdi delle due formazioni in campo, lo Ypg o lo Pyd, vengono considerati “regolari” (persino da Donald Trump, che fino a ottobre li ha usate come alleati nella lotta contro l’Isis) per Ankara si tratta invece di “terroristi” tout court. E così solo il Partito filo curdo è la sola formazione parlamentare turca rimasta a difendere le truppe che ieri hanno battuto i jihadisti, ora allontanate da una popolazione civile posta alla mercé dei primi irregolari che si infiltrano.

In questa situazione paradossale un tribunale di Istanbul ha ordinato la scarcerazione dello scrittore Ahmet Altan. Narratore di vaglia (“Non rivedrò più il mondo”, “Come la ferita di una spada”, “Scrittore e assassino”, tradotti anche in Italia), saggista riconosciuto (è stato direttore del quotidiano “Taraf”, durissimo con la casta militare), dopo più di tre anni di cella Altan è finalmente uscito di prigione. Era stato incarcerato dopo l’ultimo golpe del 15 luglio 2016, con l’incredibile accusa di avere lanciato, durante un programma tv di due sere prima, “messaggi subliminali” favorevoli al tentato colpo di Stato. Quando, in quella settimana di libertà, Repubblica ha intervistato Altan chiedendogli che cosa ne pensasse di quell’imputazione, lui ha replicato in modo elegante: “Mi è parsa una ragione così bizzarra, che mi ha quasi divertito”. Nel colloquio fatto alla Casa della Letteratura, a Istanbul, a pochi passi dal glorioso Pera Palace Hotel, continuava a ripetere: “Potrebbero venirmi a riprendere mentre stiamo parlando”. E’ andata proprio così, solo qualche giorno dopo. Una settimana di respiro, prima di rivedere non il mondo, ma la sua cella, di nuovo.

 

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