di Marco Ansaldo
(* Corrispondente da Istanbul per ‘la Repubblica’)
Un protagonista nuovo si sta affacciando con prepotenza nel panorama internazionale. Lo conosciamo da tempo, pure nelle sue mirabolanti esternazioni e gesta, capace di stupire, il più delle volte di irritare, ma con il quale finiamo sempre per venire a patti (almeno a livello istituzionale), perché intrappolati nel suo gioco utilitaristico, però ambizioso e astuto.
È la Turchia di Recep Tayyip Erdogan che, con la sua carica prorompente a dispetto di un’evidente debolezza interna e di regole del diritto di cui fa strame, è oggi l’attore con cui il mondo più si misura in Medio Oriente. In grado, pure, di espandersi e allargarsi altrove: dai Balcani al Caucaso, dall’Africa all’Europa, contendendo persino alla Cina le regioni a forte presenza musulmana, e sfidando apertamente la Nato, gli Stati Uniti e l’Occidente, del quale minaccia di poter fare a meno.
La pressione cui punta il Sultano nuovo, che si ispira alle imprese dell’Impero ottomano di cui non ha però né la visione né soprattutto la tolleranza, va in direzioni diverse. Nel Mar Egeo si esplica aprendo o chiudendo, a seconda del livello di ricatto adattabile al momento, il rubinetto dei profughi intercettati e ospitati dalla Turchia all’interno dei propri campi. Con l’Europa si manifesta, bastonandola con stupefacente regolarità per poi lamentarsi di una presunta esiguità dei finanziamenti per i migranti, finendo per ottenere un continuo profluvio di fondi. In Siria si è palesata, nei primi anni della guerra, sostenendo sottobanco l’Isis in chiave anti-Assad, e di recente infine sfondando il confine, cacciando i cittadini curdi e piazzando gli stivali ben dentro il Paese. In Libia si acclara concludendo, con il governo tripolino del premier al-Sarraj, un memorandum di intesa che consente di oltrepassare Cipro e condurre esplorazioni marine nei giacimenti di gas fino al Golfo della Sirte. E via di seguito. Le ultime trame avventuriste della politica estera turca danno ora il Paese in allargamento verso le acque della Somalia, alla ricerca di petrolio, e nel Sahel per raggiungere accordi economici, politici e religiosi.
È una dura e salata lezione che arriva a un’Europa che ha puntato sul soft power. Persino brutale nella sua disarmante chiarezza. Ma l’arroganza e la violazione sistematica delle regole pagano più della correttezza e del rispetto del gioco. Il signore del Bosforo che fa la voce grossa a ogni consesso internazionale, è guardato con sopportazione. Ma è comunque presente a ogni vertice, prende parte alle discussioni ristrette dei leader supremi, e con la sua presenza contribuisce a stabilire il nuovo ordine del mondo.
I ceffoni che ‘il signor Tayyip’ (com’è chiamato in patria, quando si ha l’ardire di nominarlo) assesta da anni con impenitente costanza ai Paesi europei sono inversamente proporzionali allo sganciamento di contributi pro-migranti assegnatogli dall’Unione. L’ammontare sommato a Bruxelles ha raggiunto i 3+3 miliardi di euro, dunque 6 per ora, ai quali andrà presto aggiunto un nuovo miliardo, il settimo, su suggerimento agli altri partecipanti della Germania di Angela Merkel.
Il caso del rapporto fra il cancelliere tedesco e la Turchia meriterebbe un approfondimento a sé. Come è stato rilevato dallo studioso turco Cengiz Aktar alla conferenza sulla Turchia e la questione curda che si è svolta la prima settimana di febbraio al Parlamento europeo, Merkel è sbarcata tra Ankara e Istanbuladdirittura una decina di volte negli ultimi anni, di cui ben 7 fra il 2017 (cioè subito dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016) e il primo scorcio del 2020. “Tutto questo è insano”, ha commentato sorridendo Aktar. Le ragioni economiche e politiche che rafforzano i rapporti fra Berlino e la Turchia sono però formidabili, e le aziende tedesche ne beneficiano fortemente. Ma la pressione che Ankara pone sul caso dei migranti, con 3 milioni di propri concittadini (oltre a un altro mezzo milione di curdi) presenti in Germania, è tale da indurre la cancelliera a dialogare a fondo e magari qualche volta a retrocedere davanti all’abilissimo Erdogan, finendo per indispettire gli alleati nella UE.
Con estrema determinazione il presidente turco tiene avvinta a sé l’Europa a suon di profughi. Ora, a colpi di droni, mercenari e pomodori, conquista il mercato di Tripoli. Con favori inconfessabili e lasciapassari illeciti si è ingraziato il Califfato nero dell’Isis, facendo del proprio Paese l’autostrada della jihad, la guerra santa. Con l’arma delle minacce adesso scardina persino la Nato: acquista missili russi dall’alleato internazionale che gli è più simile per spregiudicatezza e cinismo, Vladimir Putin, poi li piazza nelle proprie basi – che però appartengono all’Alleanza atlantica – dove per sistemarli adeguatamente ospita esperti e tecnici russi… Un capolavoro di astuzia, e di ribaltamento degli accordi internazionali. Bisogna fare un salto in Israele, di tanto in tanto, per ascoltare con quale preoccupazione l’Occidente, in uno scacchiere decisivo come quello mediorientale, guarda al Sultano redivivo.
Perché la divisione sulla Turchia non risparmia il fronte arabo. Hamas, i gruppi più radicali, il Qatar degli emiri, sono tutti amici di Erdogan. L’Arabia Saudita (con l’illusione di modernità fermatasi davanti a un Mohammed bin Salman troppo legato a schemi illiberali) e il resto del parterre arabo osservano il capo dello Stato turco, a dir poco, con diffidenza. L’Iraq con lui è venuto bene o male a patti: il Nord del Kurdistan continua a beneficiare dei traffici commerciali con le imprese di Ankara. L’Iran sciita, ancora scosso dall’uccisione americana del potentissimo generale Soleimani e stretto da un confronto aspro fra il presidente Rohani e gli ayatollah più conservatori, considera la Turchia sunnita come un attore con cui è meglio parlare, piuttosto che ritrovarselo contro mentre i venti di guerra con Israele continuano a soffiare.
Insomma la partita con la Turchia è ampia. Ma per comprenderla fino in fondo occorre concentrarsi sull’interno. Lì Erdogan è debole. Lì proseguono, nella paura, le contestazioni e l’opposizione di quanti – laici, liberali, intellettuali, artisti – giudicano la vigilia del suo ventennio una iattura. Lì l’implacabile crisi economica attanaglia i suoi stessi elettori, i quali non a caso alle elezioni amministrative del giugno 2019 lo hanno abbandonato nelle grandi città (Istanbul, Ankara, Smirne, Adana, Antalya, ecc.) preferendogli i candidati repubblicani. Lì il grande serbatoio curdo, a partire dalle zone del Sud est dell’Anatolia, lo avversa tenacemente a dispetto di una repressione che ora contempla il carcere per i sindaci legalmente eletti. Erdogan è più debole di quel che il mondo pensa. Questo lui non lo mostra, ma noi dobbiamo saperlo.