Riforma dell’Ordine: un attacco all’occupazione stabile

di Lazzaro Pappagallo giunta Fnsi

Ce la potremmo cavare così, ripostando lo stesso identico pezzo di qualche mese fa in cui la nave senza bussola dell’Ordine dei giornalisti proponeva una autoriforma non con gli strumenti doverosi, cioé una norma di legge, ma con una delibera interna di autoregolamentazione da far recepire al Ministero di Giustizia.

http://www.perunsindacatodeigiornalisti.it/2022/11/10/riforma-ordine-una-nave-senza-bussola/

Le ragioni dei dubbi contenuti in quell’articolo sono tutte in piedi. Ma nel frattempo le cose si sono mosse.

Quella delibera è stata respinta dal Ministero. 

Oggi invece ne è stata approvata un’altra regolamentare, parente molto stretta della prima, da sottoporre al vaglio dello stesso Ministero. L’Ordine si augura un esito diverso forse per aver raggiunto e convinto il decisore politico ministeriale. 

Vedremo. 

Intanto però torniamo sulle criticità più forti perché nel frattempo siamo reduci da congressi sindacali in cui questi argomenti, cioè l’identità di una professione, sono stati ripetutamente dibattuti.

E’ GIORNALISTA CHI LO FA

Per chi si è occupato con un certo impegno del nostro mondo del lavoro è la frase più onesta che si possa accogliere quando si tutelano e difendono occupazione, diritti e stipendi. Ed è una frase che deve tener conto del giornalismo contemporaneo digitale, delle piattaforme su cui si pubblica, dei nuovi ruoli declinati dalla produzione molecolare per smartphone.

La frase però ha diverse declinazioni a seconda di chi la espone.

Se la pronuncia il sindacato quella frase significa accogliere chi non ha il tesserino dell’Ordine ma produce informazioni (la proposta di riforma dello statuto di Stampa Romana con un terzo elenco di iscritti) per portarlo nell’area dei diritti e delle tutele principalmente legate al lavoro dipendente. Perché sappiamo tutti o quasi che il lavoro autonomo giornalistico è una grande illusione. 

Senza portarci in territori troppo sofisticati diciamo che questa illusione è fotografata dalle differenze retributive. Un giornalista dipendente fieg/fnsi guadagna 60mila euro lordi contro i 14mila delle partite iva e i 7mila dei cococo. Con queste condizioni salariali le ultime due categorie sono a rischio povertà e con una indipendenza nel ruolo sociale e professionale costantemente compromessa. Accogliere i giornalisti di fatto nel sindacato significa spingerli nell’area dei diritti e delle tutele.

Se la pronuncia l’Ordine,  pur inquadrando la stessa platea degli utenti,  descrive un riconoscimento tout court, sic et simpliciter, di quello che c’è. E quello che c’è – lo sappiamo tutti – è disperante sul piano degli stipendi, delle tutele di chi è fuori dalla responsabilità giuridica di testate e di direzioni editoriali. Fissare il riconoscimento “indicativo” del minimo tabellare Cnlg anche al di fuori della subordinazione significa arrendersi esattamente a quello che c’è come se fosse un meccanismo sociale, economico, professionale ineluttabile.

E la responsabilità nei confronti dei cittadini e dei lettori, richiamata più volte dal Presidente Mattarella nei suoi appunti sulla stampa, è un tema decisivo in Europa, nella prospettiva di un giornalismo contemporaneo.

Ma arriviamo sul tema della riforma e del ruolo “selettivo” dell’Ordine.

LA VECCHIA RIFORMA

L’attuale maggioranza ordinistica ha molte affinità con quella che sotto la sigla Contrordine ha gestito il mandato di Carlo Verna.

Quella maggioranza riteneva, con qualche ragione, che l’accesso in albo unico dovesse arrivare da un percorso universitario collegato a volte con le Scuole di giornalismo in cui si producono giornali registrati e guidati da un direttore responsabile, magari evitando che queste ultime potessero essere un cancello d’accesso elitario a causa di rette di iscrizione troppo costose. Uno schema di riforma fermo in qualche Parlamento sciolto, frutto di una trentina di anni di ragionamenti convergenti e convincenti.

Quel percorso riduceva senza escluderla l’alea dell’arbitrio assegnato a direttori e aziende nel praticantato, rendeva la nostra professione meno feudale (la cooptazione), la avvicinava agli altri Ordini professionali.

Con questa autoriforma ci muoviamo in tutt’altro contesto.

In questo contesto sono cambiati o mancano due attori fondamentali: l’Inpgi e il sindacato unico e unitario.

Fallito l’Inpgi 1 e riposizionato sotto l’ombrello pubblico dell’Inps non vorremmo che qualcuno pensi che per giustificare l’Inpgi 2 (una media pensionistica di 2mila euro l’anno) si debba immaginare una professione in larghissima misura di lavoratori autonomi con qualche inevitabile eccezione a iniziare dalla Rai.

In nessun paese europeo esiste un lavoro giornalistico fatto solo da freelance. In nessuno.

Gli unici a godere di una lettura e di una pratica del genere sarebbero gli editori.

Il sindacato che pure si è trasformato, almeno a Stampa Romana, in una casa per dipendenti e autonomi di identica lungimiranza deve avere come obiettivo quello di garantire tutele e diritti che nel nostro ordinamento nazionale derivano dai contratti di lavoro. Se dimentichiamo in tasca questa bussola cui sono legati stipule e rinnovi negoziali stiamo giocando a mosca cieca con il buio in sala e non troveremo più la via d’uscita.

Non dovremmo avere particolari dubbi non fosse per alcuni recenti segnali sinistri tra cui l’incredibile bocciatura di una mozione congressuale nazionale che impegnava Fnsi a fare il sindacato cioè a rinnovare il principale contratto di lavoro.

Per noi resta chiaro che i finti precari vanno portati nel lavoro dipendente e non il contrario.

Non possiamo rassegnarci a un mondo senza redazioni, senza contratti di lavoro, senza una opera collettiva dell’ingegno, con colleghi poveri economicamente e professionalmente. Pur consapevoli di agire in un mercato con oggettive e ovvie limitazioni di protagonisti, editori e dipendenti, sempre più condizionati dal ruolo delle piattaforme.

Su questo continueremo a vigilare e lottare. 

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